Blumi: Quando è uscito B-Boy maniaco tu eri già attivo da oltre 10 anni: avevi perfino partecipato al festival di Castrocaro nel 1986...
IceOne: Sì, esatto:
ero attivo dall'82, e effettivamente nell'86 avevo partecipato a Castrocaro.
Avevamo cercato di fare uscire il rap in circuiti un po' meno underground,
anche perché all'epoca non c'erano dei grandi limiti: la scena non aveva ancora
sviluppato una chiusura nei confronti del mainstream, e anche nel music
business c'era un livello di manipolazione molto più basso di quello che invece
si trova oggi. Era un fenomeno che i discografici non conoscevano ancora
abbastanza bene, quindi erano molto più possibilisti e aperti all'ascolto. Se
partivi con le idee chiare e delle convinzioni forti, erano molto più contenti
anche loro.
B: Erano possibilisti e
aperti anche nei confronti del rap in inglese, ad esempio?
I: Con una delle
mie prime formazioni facevamo proprio rap in inglese: si parla dei Power Mc's,
ovvero io, Julie P e Duke Montana. Quello era un periodo di passaggio, e quasi
tutti avevamo fatto un disco in inglese: una scelta obbligata per sperimentare.
Tutti noi, però, sentivamo l'esigenza di comunicare qualcosa in italiano, e
abbiamo cominciato a fare i primi tentativi. Per quanto riguarda me, non ero mai
soddisfatto al 100% di quello che scrivevo: ho dovuto lasciar passare parecchio
tempo prima di riuscire a raffinare la tecnica e trovare uno stile che non
fosse un compromesso troppo esagerato.
B: Hai praticato tutte
e quattro le discipline, una cosa che ormai non succede più...
I: Sì, bene o male
le ho praticate tutte, nel senso che alcune con meno costanza o per meno tempo.
All'epoca non ero il solo, comunque: tutti provavano tutto. Il primo input era
stato il ballo, che mi aveva folgorato grazie a quella famosa scena di Flashdance
in cui compare la Rocksteady Crew: ho avuto fortuna, perché all'epoca ho
conosciuto alcuni ragazzi di Boston che già ballavano e mi insegnarono
qualcosina. La mia vera passione, però, era fare il disc jockey. Essendo poi anche
un musicista – ho studiato pianoforte per anni – ero anche molto affascinato
dal metodo di composizione dei beatmaker, così ho iniziato a produrre le mie
prime cose, che registravo artigianalmente su cassetta. Nell'87 ho inciso i
miei primi lavori su vinile, ma non per progetti miei: erano più che altro per
altri musicisti che volevano che il lato B del loro singolo contenesse anche
del rap, e quindi ci chiamavano per qualche collaborazione.
B: Il vostro è stato un
percorso a 360°, mentre spesso chi si avvicina oggi all'hip hop considera solo
l'aspetto del rap, e tutto il resto gli sembra molto marginale. Perché, secondo
te, questo gap generazionale?
I: Il rap ha un
grande potenziale di espressione e comunicazione, senza dubbio. Anche le altre
discipline ce l'hanno, ma forse hanno già dato quello che dovevano dare. Il
writing, ad esempio, in questo periodo sta prendendo di nuovo piede, ma è più
che altro legato a tematiche urbane e di riqualificazione delle città, più che
all'hip hop in sé. Negli anni si sono create molte fratture all'interno della
scena, e nell'ambito di queste fratture è nato anche questo fenomeno del rap
fine a se stesso, che può essere abbinato a qualsiasi genere musicale. Ma non è
la sua vera natura: il rap è parte integrante dell'hip hop, e quando se ne
distacca il risultato è abbastanza misero. È come una pianta senza radici.
B: Nel periodo in cui
sembrava che i soldi facessero schifo a tutti, tu sei stato uno dei primissimi
ad affermare che era giusto guadagnare dalla propria musica e anzi, che
pretendevi di essere retribuito per quello che facevi...
I: Esatto. Quello
che facevo non era mediato da nessun desiderio di commercialità: non lo
riadattavo per la moda del momento, ma volevo guadagnarci su qualcosa. Non per
essere venale, ma perché per portare avanti questa attività 24 ore su 24, 7
giorni su 7, avevo senz'altro bisogno di un minimo di sostentamento. Io vengo
da una famiglia che mi ha sempre cresciuto dignitosamente, ma ha origini
popolari: il lavoro è sempre stato una grande fonte di dignità personale, e
trasformare la mia passione in un mestiere mi è venuto logico e automatico. Per
quanto riguarda la tendenza dell'epoca, secondo me molti avevano paura di avere
successo, e quindi cercavano di rifuggirlo in quel modo. Altri ancora (quasi tutti, a dire il vero)
hanno tentato di sfondare, e poi quando non ci sono riusciti si sono nascosti
dietro al paravento del duro e puro. Peccato che in America riuscissero ad
essere duri e puri anche guadagnando: io non ho fatto altro che adeguarmi a
quel modello, quello del mio gruppo preferito, che si chiama EPMD e cioè Erick
and Parrish Makin' Dollars... Sono consapevole di dire una verità scomoda,
ma quasi tutti coloro che non ritenevano indispensabile avere un riscontro
economico in Italia avevano i soldi di famiglia. (ride)
B: Oggi, finalmente, i
rapper hanno capito che fare musica è un mestiere e giustamente pretendono di
essere retribuiti per rappare, ma avranno capito come non riadattare la propria
musica alla moda del momento?
I: Sicuramente c'è
una mediazione verso la commercialità, ma penso che arrivi più dagli artisti
che dalle discografiche. È il discorso che facevamo prima: se arrivi ad
ottenere un contratto ma non hai un'idea forte, sicuramente cercano di
direzionarti loro verso la strada che credono migliore. Molti parlano di manipolazione, ma penso che ad
oggi sia applicata soprattutto nei confronti di quegli artisti che hanno
talento e capacità, ma non sanno esattamente che cosa vogliono fare. Chi sa
cosa fare si sente rispondere sì oppure no, ma quando la risposta è sì poi non
deve più preoccuparsi di eventuali interferenze. Un po' come è successo a noi
Colle Der Fomento quando, dopo aver lavorato a lungo e senza imposizioni con
un'indipendente come Irma Records, siamo approdati alla Virgin, che era una
major: era chiaro che il prodotto funzionava e che noi sapevamo il fatto
nostro, perciò nessuno ci ha mai detto cosa fare. Ad oggi, a differenza del
passato si può contare anche su spazi come Italia Hip Hop Foundation, dove si
possono chiedere consigli a tutti gli artisti che sono considerati come
seminali nell’ Hip Hop Italiano…
B: Hai raccontato che
quando hai iniziato tu a fare beat avete imparato tutto a orecchio, e che una
volta siete rimasti per ore in camera di Gruff, entusiasti perché aveva
finalmente capito cos'era il transformer e come funzionava. Se oggi non ci
fosse Internet, secondo te quante persone effettivamente avrebbero imparato
come si fa il rap e come si fanno le basi?
I: Ai miei tempi
non c'erano sicuramente tutorial, e anche se ci fossero stati un
videoregistratore costava un occhio della testa, quindi dovevi assorbire come
una spugna tutto ciò che vedevi dal vivo. Alcuni personaggi, come Gruff o dj
Skizo, per me sono stati fondamentali in termini di confronto e condivisione
della conoscenza. Ci scambiavamo idee soprattutto a distanza, però:
quell'incontro che tu menzioni, ad esempio, è stato un evento epocale, perché
le volte che siamo riusciti effettivamente a incontrarci, in quegli anni, si
contano sulle dita di una mano. Abitare lontani ed essere sempre in giro per
suonare non aiutava, in quel senso. Quella volta lui ci aveva ospitato a casa
sua dopo uno Zulu Party a Torino, ed essendo riuscito a decodificare per primo
alcuni trucchetti, ci aveva spiegato pazientemente tutto. Sicuramente i
tutorial velocizzano la conoscenza, ma non ti trasferiscono il talento per
scienza infusa: o ce l'hai o non ce l'hai. Puoi tentare di imitarlo, ma dopo un
po' la verità salta fuori, come è successo recentemente in quel famoso caso del
producer che in realtà non produceva... (Si riferisce a The Orthopedic, ndr)
B: Ecco, a proposito di
questo: l'aspetto più sconvolgente di tutta questa storia, secondo me, è che
sono tutti cascati dal pero, nessuno sembrava essersi accorto di nulla. Come si
distingue un beatmaker capace da uno che finge di esserlo?
I: Secondo me il
problema è l'atteggiamento “business”: la gente non va più a controllare dal
vivo in che modo lavora un producer. È necessario un contatto, un feeling,
possibilmente un incontro di persona e non solo tramite Internet: collaborare
per un album è una cosa importante, non si può comprare una base come al
mercato del pesce. O peggio ancora, comprarla per corrispondenza per poi
sentirti proprietario di qualcosa di cui in realtà non conosci neanche
l'origine. Un vero producer, se ne ha la possibilità, entra in studio insieme a
te e ti fa vedere come lavora. Osservare un producer che lavora è un vero
spettacolo, secondo me. Anni fa facevamo a gara: 10 minuti d'orologio, una pila
di dischi e il più veloce a chiudere un beat vinceva. Magari ne usciva fuori
una schifezza orrenda, ma sicuramente ti dava l'idea delle capacità di un
produttore! (ride)
B: Rimanendo in tema di
beatmaking: spulciando vecchi numeri di Aelle ho trovato una rubrica in cui
spiegavi che tipo di attrezzature procurarsi per intraprendere la carriera di
beatmaker. Tra le altre cose dicevi che il prezzo di un campionatore usato si
aggirava tra le 800.000 lire e i 2 milioni...
I: Ecco perché ho sempre
insistito sul fatto che era necessario guadagnare: il problema era proprio
quello! Chiaramente, se diventavi un po' più conosciuto, i produttori e i
distributori di quelle macchine te le mandavano gratuitamente, ma prima di
riuscire ad arrivare a quel traguardo il campionatore diventava un costosissimo
oggetto del desiderio. Chi non era già un musicista professionista doveva
lavorare e faticare non poco per poterselo permettere. Ricorderò sempre che nel
periodo in cui uscì l'album di Frankie HI-NRG, in parte prodotto da me,
ascoltavo le sue canzoni alla radio del supermercato dove lavoravo come
magazziniere per 12 ore al giorno, e tra me e me speravo fosse un segno del
destino che mi indicava che da lì a breve sarei stato fuori da quella prigione,
perché non ce la facevo più! (ride)
B: Continuando con le
curiosità: quando hai pubblicato B-Boy Maniaco non eri mai stato in
America, né per lavoro né per piacere. In questi anni, invece, hai avuto
occasione di farlo?
I: No, non ancora.
Ho viaggiato parecchio in Europa, ma per me l'America è una specie di
traguardo, che voglio tagliare solo a certe condizioni. È vero, è la patria
dell'hip hop, ma lì non hanno bisogno di me, è qui che va sviluppato, ed è qui
che voglio continuare a lavorare. Magari tra quindici anni, quando avrò fatto
tutto quello che devo e voglio fare qui, ci andrò, finalmente. Ma per ora non
ci vado, per partito preso.
B: Mettendo in play
oggi B-boy maniaco si sente che il flow è un po' datato, ma i beat
suonano ancora freschi e attuali. Qual è il segreto per fare un disco senza
tempo, che si riascolta con piacere anche quasi vent'anni dopo?
I: Mi fanno spesso
questa domanda, e secondo me il segreto è saper cogliere la differenza tra una
traccia e una canzone. Una traccia diventa una canzone quando permetti al tuo
pubblico di cantare in prima persona le tue parole, senza metterci troppi
riferimenti personali e facendo sentire l'ascoltatore in parte protagonista di
quello che racconti. Riguardo al beat, invece, è tutta una questione di musica.
Grazie ai sacrifici dei miei genitori ho potuto studiare pianoforte, e
consiglierei a tutti i beatmaker di fare lo stesso: inutile affidarsi ai
software che ti mettono automaticamente le note in tonalità, i risultati sono
scadenti e si sentono. Bisogna conoscere i rudimenti della composizione, perciò
almeno qualche lezione di musica di base sarebbe da prescrivere a chiunque
voglia fare questo lavoro. Io ho un certo immaginario di riferimento: mi
piacciono i film horror, la musica cupa, e cerco di esprimere quel mood con la
matematica della musica. C'è uno studio attento e una ricerca dietro ogni suono
che scelgo.
B: Tra l'altro, a
proposito di questo, mentre riascoltavo il disco per preparare l'intervista ho
beccato un campione che anni dopo avrebbero anche usato, in maniera
assolutamente identica alla tua, i Massive Attack per l'intro di Protection...
I: È una cosa che è
capitata spesso a me, Next One, Gruff, Skizo e tanti altri dj italiani: abbiamo
anticipato delle produzioni internazionali di personaggi famosissimi. È
normale, perché abbiamo tutti lo stesso bagaglio culturale. Spesso invece
succede anche che abbiamo le stesse idee, ma non la stessa possibilità di
realizzarle. Ad esempio mi sarebbe sempre piaciuto campionare il tema di Uccellacci
uccellini di Ennio Morricone, ma non ho potuto perché non potevo
permettermi di pagare la cifra necessaria a liberare il sample (la
cosiddetta sample clearance: soprattutto se il campione è famosissimo e
si rischia di essere beccati, è pratica comune chiedere all'autore originale
l'autorizzazione all'utilizzo dietro pagamento, ndr). Alla fine lo hanno
fatto gli EPMD per Symphony 2000, che sicuramente era un progetto in cui
non avevano problemi di budget. L'alternativa era tentare di campionarlo a
sgamo, ma in Italia sarebbe stato troppo complicato perché è un tema molto
conosciuto. Con molti miei sample meno noti taglio la testa al toro e faccio
così, incrociando le dita e sperando che mi vada sempre bene... (ride)
B: Tu sei uno di quei
producer che ancora fa tutto campionando, e magari campiona solo da vinile?
I: Sì, la maggior
parte delle mie produzioni, anche quando sono lavori più elettronici che non
sembrano sample, è costituita da campionamenti. E ho sempre campionato da
tutto. Il mio eroe era un mio amico un po' più giovane di me, Phella, che ha
lavorato con me anche ne La Comitiva, che utilizzava davvero qualsiasi cosa per
fare i suoi beat, perfino le cassette che davano in omaggio con i fustini del
detersivo. Io ho adottato lo stesso suo metodo, anche perché nel 2006 ho subito
un grosso danno: il mio studio è andato distrutto a causa di un'inondazione. I
locali erano sepolti nel fango e sono riuscito a salvare molti vinili, ma ho
perso tutte le macchine. Da quel giorno ho imparato a viaggiare leggero: ho 2
thera di Mp3 e spesso e volentieri campiono da quelli, anche se ovviamente la
mia preferenza va sempre al vinile. L'importante, comunque, è il suono, anche
perché poi ci penso io a lavorarlo nella maniera giusta.
B: Poco fa nominavi La
Comitiva, un collettivo incredibile e molto innovativo di cui eri una colonna
portante: avete sfornato un unico, bellissimo disco alla fine degli anni '90, Medicina
buona, e poi non avete mai più lavorato insieme. Come mai non avete dato un
seguito al progetto?
I: Eravamo
tantissimi: oltre a me i membri fondamentali erano Riccardo Sinigallia (noto
cantautore e attuale produttore di Coez, ndr), Francesco Zampaglione (fratello
di Federico Zampaglione dei Tiromancino, nonché uno dei principali parolieri e
compositori di musica italiana, ndr), David Nerattini (creatore della
rivista Superfly e batterista, giornalista, produttore con lo pseudonimo di
Little Toni Negri, ndr) e dj Stile. Oltre a noi, vari altri artisti hanno
collaborato al progetto, come Elisa – il cui nome all'epoca non venne citato
esplicitamente in tracklist perché stava cercando di distaccarsi dalla sua
immagine di cantante anglofona – Malaisa, Frankie HI-NRG, Massimo Nunzi (Trombe
Rosse Posse/C’era una Volta a Roma), Phella e Erika Savastani. Il progetto
nacque una sera al Locale di Roma, attorno al 1994: mancava il gruppo che
doveva suonare, così chiamarono un po' di gente, ovvero noi, per fare una jam
session. Ci ritrovammo tutti lì e, ispirati da una quindicina di bottiglie di
vino rosso, cominciammo a improvvisare: per caso tra il pubblico c'era anche
l'allora presidente della Virgin, Riccardo Clary, che dopo averci sentito volle
assolutamente che facessimo qualcosa per lui. Ci diede qualcosa come sette
milioni di lire per pagarci lo studio per registrare un provino, una cifra
astronomica per noi all'epoca... Ci chiudemmo in sala d'incisione per una
settimana e uscimmo con un dat pieno di tracce, che gli consegnammo. Lui lo
ascoltò entusiasta e disse testuali parole: “Ragazzi, è un disco incredibile, davvero
meraviglioso, molto avanti. Ci rivediamo tra cinque anni!”. Noi rimanemmo a
bocca aperta! In sostanza, secondo lui era un progetto troppo futuristico per
funzionare all'epoca.
B: Pazzesco! E quindi
cosa successe da lì al '99 quando l'album effettivamente uscì?
I: Ci dimenticammo
per un po' della cosa: La Comitiva fece una comparsata come collettivo in B-boy
maniaco, e riutilizzai anche diverse cose che avevo prodotto per La
Comitiva inserendole in quello stesso album. Devi sapere che il mio progetto
solista uscì come una sorta di tappabuchi: con i Colle der Fomento eravamo in
un mostruoso ritardo per la consegna del disco, oltre un anno, perciò per non
fare attendere troppo la Irma Records che giustamente si aspettava qualcosa dal
nostro collettivo, decidemmo di anticipare il mio album. Comunque, tornando
alla Comitiva, esattamente cinque anni dopo la Virgin si fece viva di nuovo,
chiedendoci di pubblicare l'album. Naturalmente non riconsegnammo lo stesso dat
del '94: ormai quella roba la sentivamo vecchia, così chiedemmo di poter
ri-registrare tutto. Per fortuna Riccardo Sinigallia aveva appena aperto il suo
nuovo studio, per cui registrare Medicina buona fu anche una sorta di
rodaggio... Il risultato ci ha molto soddisfatto ma, come spesso succede nei
gruppi che coinvolgono parecchie persone, subentrarono incomprensioni, malumori
e difficoltà di vario tipo, perciò abbiamo abbandonato il progetto. Ma in fondo
va bene così: quell'unico disco è una chicca per intenditori, che magari prima
o poi ristamperanno.
B: Mi ricollego alla
questione progetti solisti che accennavi poco fa: gli unici dischi
esclusivamente tuoi usciti finora sono B-boy maniaco e un altro lavoro
con Irma Records, Crescendo – The dark side of funk. Come mai?
I: Sono stato
travolto dagli impegni come produttore: oltre agli album con i Colle Der
Fomento, La morte dei miracoli di Frankie HI-Nrg (i cui beats sono stati
prodotti con la preziosa collaborazione di Julie P), Banditi degli
Assalti Frontali, Metamorfosi di liriche di Malaisa... Era impossibile
concentrarsi anche sullo scrivere. Nel corso degli anni ho comunque fatto
uscire qualcosina, magari in free download. Oggi come oggi, invece, ogni tanto
faccio un pensierino sull'idea di pubblicare un nuovo album solista: stiamo
valutando le varie possibilità. Sarebbe una sorta di evoluzione di B-boy
maniaco, chiaramente, perché i contenuti che mi stanno a cuore sono ancora
quelli. Rap sociale, umanitario, senza colori: pur avendo una mia idea
politica, voglio che le mie canzoni non siano politicizzate, ma della gente.
B: Già: hai sempre
dichiarato di volerti astenere dal rap politico, o meglio, da quello
politicizzato. Nel libro di Damir Ivic c'è una teoria molto interessante
riguardo alle posse: potevano rendere unico l'hip hop italiano, ma alla lunga
l'hanno cannibalizzato, accentrando tutta l'attenzione su di sé e convincendo
l'opinione pubblica che il rap era solo di un movimento di protesta sociale.
Sei d'accordo?
I: È un'analisi
giusta, ha centrato perfettamente il problema. Certo, è stato tutto molto più
morbido e spontaneo di come potrebbe sembrare a posteriori: certe cose
succedevano perché succedevano, senza voglia di imporre la propria visione,
anche se all'epoca molti di coloro che cominciavano a fare hip hop non politico
la vivevano in questo modo. Diciamo che si trattava di due sotto-scene che
procedevano spalla a spalla, in parallelo, e gli esponenti più intelligenti di
entrambe non si facevano problemi a confrontarsi e mescolarsi. Il fenomeno
delle posse non è stato né un bene né un male: la difficoltà vera è stata dal
punto di vista pratico. All'epoca io cercavo di mantenermi solo con la musica,
e subire la concorrenza di crew di 8/10 persone che andavano a suonare nei
centri sociali esclusivamente per il rimborso spese era davvero difficile... (ride)
B: Progetti futuri?
I: Parto da quelli
presenti: usciranno moltissimi miei lavori con artisti emergenti. Lord Madness,
Rata da Torino, Tommy Sparda dalla Sicilia… Sto anche collaborando con i Giuda Fellas, una
nuova formazione romana che include anche Fetz delle Scimmie del Deserto. Ho
anche fatto un remix ad Ensi per una raccolta che uscirà a breve. Probabilmente
– non di sicuro, ma c'è la volontà da entrambe le parti – ci saranno alcune mie
tracce nel nuovo album dei Colle der Fomento. Ci siamo riavvicinati dopo tanto
tempo: non c'era mai stata una rottura definitiva tra di noi, ma solo un
allontanamento, dovuto anche a un mio periodo un po' difficile, che chiaramente
ha influenzato anche la musica, da cui mi ero preso una pausa per qualche
tempo. Inoltre, come dicevamo prima, sto valutando l'idea di produrre un mio
nuovo album solista, che sicuramente si avvarrebbe della collaborazione anche
di altri produttori. Magari ragazzi che sono cresciuti con me, che negli anni hanno
imparato tanto e sono diventati ottimi beatmaker: mi piacerebbe molto rappare
su strumentali di altri, se gli altri sono loro.
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