domenica 30 ottobre 2016

Chi deve fare i propri affari....



Chi deve fare i propri affari fa bene a promuovere le proprie avventure commerciali nei modi che più ritiene opportuno. Ci sono persone che si applicano a questo per farlo nel migliore dei modi creando messaggi pubblicitari che a volte scioccano il probabile cliente o scioccandolo lo attirano come fa il richiamo per gli uccelli.

Questo grande mezzo ideato e realizzato per fare affari, ma anche per promuovere la civiltà, lo scambio delle proprie idee mi accorgo che sta creando forme di populismo che sarebbe meglio non aiutare.

Il fruitore avrebbe dovuto imparare nel tempo ad esprimere se stesso ma non per imitazione o per copia conforme. Il copia e incolla in certi casi ha svalutato le attività professionali dove l'aiuto si è tradotto in un proliferare di avvenimenti o documenti uguali uno all'altro, mancando all'appuntamento con la realtà vera che, nella maggioranza dei casi, è stata sottaciuta o falsata.

A cosa mi serve imparare se poi produco solamente quello che ho appreso senza adottare forme di analisi e di critica per individuare le cose buone e le cose che, invece, chiedono un'attenzione particolare per essere risolte, restano inevase?

In questo modo il mondo si appiattisce e le diversità critiche si accentuano sempre di più facendole maturare fino a farle diventare quella fonte di pericolo  stupido che meglio eliminare o contenere in attesa di una soluzione chiesta dalla ragione e dalle regole che non mancano.

Tutto quello che è stato promosso è stato accolto nella maniera giusta ma con una percentuale bassa di riuscita morale e intellettuale. 

Per aiutare gli scambi che dovrebbero avvicinare, i destinatari pur di partecipare alla festa arrivano a replicare quello che ha scritto chi ha risposto prima di lui all'appello lanciato. 

Un augurio di buon compleanno o di onomastico che dovrebbe rappresentare l'espressione più semplice di benevolenza e di vicinanza all'altro sta diventando un'attività da sbrigare in fretta per alleggerire la casella postale.

Ci sentivamo soli e persi, ma di questo passo continuiamo ad essere noi stessi da soli esprimendo la nostra parte peggiore senza il rischio di prendere le bacchettate dal maestro che, oggi diversamente da ieri, rischia di essere licenziato per il trattamento punitivo che ci riserva.

Il populismo nasce dal cretinismo, dall'incapacità di assumersi le proprie responsabilità intruppandosi in un gregge che bela sempre alla stessa maniera. Essere dei replicanti non è il nostro destino ed essere diversi non connota irrevocabilmente quelli affetti da patologie che vanno curate e risolte per alleviare dove è possibile il disagio vissuto da chi ne soffre, ma avere una propria personalità con una dialettica autonoma che, ben utilizzata e partecipata, servirà senz'altro a migliorare il prodotto delle nostre anime senza alimentare la monotonia che stiamo vivendo che ci addormenta e rende asfittica la vita  che viviamo nel ripetere gesti senza produrre emozioni.

Gioacchino Ruocco                                                                                              Ostia Lido  31.10.2016

Oggi 28 ottobre 2016, a partire dalle ore 17.30 presso la Chiesa dei Santi Luca e Martina al Foro Romano (via della Curia)

Oggi 28 ottobre 2016, a partire dalle ore 17.30 presso la Chiesa dei Santi Luca e Martina al Foro Romano (via della Curia)
Oggi 28 ottobre a partire dalle ore 17.30, l'Accademia Nazionale di San Luca organizza presso la Chiesa dei Santi Luca e Martina al Foro Romano (via della Curia) l'incontro UMBERTO RIVA, ÁLVARO SIZA, FRANCESCO VENEZIA & il Tempo, afferente al progetto Il Grand Tour, a cura di Roberto Cremascoli e Francesco Moschini.
L'evento si inserisce nell'ambito della iniziativa ÁLVARO SIZA A ROMA, organizzata dall'Accademia Nazionale di San Luca e dal Maxxi per rendere omaggio ad un grande interprete dell'architettura contemporanea.


UMBERTO RIVA, ÁLVARO SIZA, FRANCESCO VENEZIA & il Tempo
Non è una conferenza, non è una lezione, non è un dibattito e neanche una tavola rotonda. È un incontro. Tre modi di presentare al pubblico la propria architettura, ciascuno a suo modo. È l'incontro di tre Maestri che condividono l'interesse per la bellezza, l'unica cosa che può salvare l'uomo. Si confronteranno i diversi approcci relativi a un luogo, alla storia e al tempo. Attraverso immagini, pensieri, parole e testi degli autori si parlerà dei processi di continuità e di trasformazione, conseguenze inevitabili della pratica architettonica. L'ambito geografico dell'Europa meridionale come elemento che accomuna il loro campo di intervento. Il 28 ottobre 2016, dalle ore 17.30, nella Chiesa dei Santi Luca e Martina, opera di Pietro da Cortona situata nella suggestiva atmosfera del Foro Romano, l'incontro, organizzato dall'Accademia Nazionale di San Luca, di tre giganti della cultura architettonica: Umberto Riva, Álvaro Siza, Francesco Venezia. Un privilegio. Introduce Francesco Moschini. Modera Roberto Cremascoli.

Accise .... niente accise PUOZZE MURIì 'e ACCISE




PUOZZE MURIì 'e ACCISE

POSSA TU MORIRE DI ACCISE.



Nel consegnarsi questo modo di dire ne rivendico la paternità per averlo
realizzato pochi minuti fà, durante l'attività di raccolta di locuzioni avverbiali, di modi di dire
 e proverbi napoletani raccolti finora da pubblicazioni specifiche, letterarie e tanti scritti
che mi sono passati per passarmi per le mani fino a questo momento
di prossima pubblicazione se qualche editore me lo consentirà.

Osia Lido, 31 ottobre 2016 ore10,30








No hálito fremente das luzes di Isaura Almeida


   
presenta


Isaura Almeida (Sonhar a Realidade) Art

No hálito fremente das luzes
sei-me dançando um dia
uma melodia que não me lembre...

Sei da noite, uma chuva fria
de corpo sei, um fumo quente...

Sei dos olhos, nos meus...
...a alma nua...

Sei da boca, perdida
os sabores e recantos...
sei das sombras... e sei do espanto...

E na seiva, segredo lua
onde rubra, a vontade queima...

Sei de ti... Que não esquecerei
sei da melodia que não me lembro
que noite dentro, um dia...
Dançaremos juntos... Eu sei...

RZorpa Ruimonti

Fotografia de Babak Fatholahi
Isaura Almeida (Sonhar a Realidade) Art

No hálito fremente das luzes
sei-me dançando um dia
uma mel...












Isaura Almeida (Dreaming Reality) Arte

Nel respiro fremente delle luci
so che mi farai ballare un giorno
una melodia che non mi ricordo ...

So che la sera una pioggia fredda
farà uscire dal mio corpo un fumo caldo ...

So che i miei occhi,
sono... un'anima nuda ...

So che la bocca ha  perduto
i sapori e le labbra...
So che le ombre ... mi stupiranno ...

E il segreto sarà la linfa della luna
dove rossa sarà la combustione ...

Ti conosco ... so che non mi dimenticherai
Sei la melodia di quella notte

che non riesco a ricordare .

Traduzione  Gioacchino Ruocco




venerdì 28 ottobre 2016

LIBERTY IN ITALIA. Artisti alla ricerca del moderno



LIBERTY IN ITALIA. Artisti alla ricerca del moderno
mostra a cura di Francesco Parisi e Anna Villari
Palazzo Magnani popone dal 5 novembre 2016 al 14 febbraio 2017 una spettacolare, ampia indagine sul Liberty in Italia. Sette sezioni che vedono riunite quasi 300 opere: dipinti, sculture, grafica, progetti architettonici e decorativi, manifesti, ceramiche, selezionatissimi prestiti provenienti dai più importanti Musei italiani e da straordinarie collezioni private. Molti di questi prestiti sono frutto dei più recenti studi e escono dalle collezioni mostrandosi al grande pubblico per la prima volta.
Ogni sezione della mostra – dedicata al dialogo tra le diverse arti – mette in luce l’alternanza tra le due “anime” del Liberty italiano: quella propriamente floreale e quella “modernista”, più inquieta e vicina a influenze europee, e che porterà da lì a poco alle ricerche delle avanguardie e allo sviluppo in chiave più stilizzata ed essenziale del linguaggio decorativo.
“All’interno di una idea più ampia e generale di “Liberty italiano” – anticipano i curatori Francesco Parisi e Anna Villari – abbiamo voluto porre a confronto le due diverse tendenze; cercando di assecondare in questo modo il dibattito storico artistico dell’epoca che individuava, come vera essenza del Liberty, la linea fluente, floreale e decorativa e, d’altra parte, recuperando il modello critico della letteratura coeva che identificava nel Liberty tutto ciò che era considerato moderno e di rottura, includendo quindi anche quelle esperienze non propriamente classificabili in Italia come floreali ma piuttosto moderniste o secessioniste”.
Il percorso della mostra si sviluppa secondo una scansione per sezioni “tradizionali”: pittura, scultura, decorazione murale, ceramiche, progetti di case d’artista (come chiave nuova per entrare nell’idea progettuale dell’architetto che lavora, eccezionalmente e con la massima libertà espressiva, per se stesso), manifesti, illustrazione e grafica originale.
Filo rosso che collega tutte le sezioni: la linea grafica e la ricerca sul segno, che erano allora alla base della concezione progettuale e formale di ogni opera, sia di quella più propriamente fluente e floreale, sia di quella più severa e moderna. Si sono, infatti, accostati a pitture, sculture, ceramiche, grandi manifesti pubblicitari, i bozzetti preparatori, i cartoni per gli affreschi, i disegni relativi a vasi, illustrazioni, incisioni.
Una chiave inconsueta che rivela, entrando nel vivo del “fare” e nella mente dell’artista, la vera essenza concettuale e espressiva del Liberty, un movimento, una tendenza e una moda che, a distanza di più di cento anni, non ha ancora esaurito il suo potere seduttivo.
Le sezioni della mostra:
La pittura
Nelle tre ampie sale dedicate interamente alla pittura emergerà come in Italia non sia possibile individuare uno stile unitario riconducibile ad una ortodossia Liberty ma piuttosto una varietà dovuta in parte alla fedeltà ad un linguaggio tradizionale, piuttosto che una attenzione alle diverse tendenze d’oltralpe. Nonostante questo, in diversi artisti – da Casorati a Boccioni a Bargellini, da Bocchi a Corcos – si può avvertire, spesso in coincidenza con una ricerca giovanile, una eco della linea decorativa Liberty.
L’illustrazione e la grafica
Forse più di ogni altra, l’espressione artistica caratterizzante la Belle Époque è stata quella grafica, sia quella applicata – ovvero il manifesto e l’illustrazione libraria – sia quella produzione più personale sortita dai torchi dei singoli artisti che, in un’accezione più vasta, alle Esposizioni d’arte veniva definita “Bianco e Nero”. Nel caso della produzione grafica originale, si trattava quasi sempre di opere ispirate ai grandi temi della letteratura decadente o storicista; nel caso, invece, della grafica editoriale si vennero a creare importanti binomi tra artista e letterato. Ne sono un esempio i rapporti tra De Carolis e D’Annunzio, oppure tra Francesco Nonni e Antonio Beltramelli.
Ampio spazio è dato all’incisione originale e verranno esposte le opere dei più influenti artisti con rari e preziosi esemplari provenienti da diversi Archivi privati e dalle collezioni della Calcografia Nazionale di Roma.
Le case d’artista
Lo spazio storico che separa gli ultimi anni del XIX secolo dalla Prima guerra mondiale, la cosiddetta Belle Époque, ha visto gli architetti di tutta Italia cominciare a confrontarsi con i consumi di massa, e trasformare il proprio ruolo in quello di un total designer, sulla scia dei secessionisti. Ma un particolare aspetto della stretta connessione tra arte, letteratura e decorazione è rintracciabile soprattutto nella realizzazione delle moderne case d’artista: scrittori, scultori, pittori che nella piena maturità del loro percorso professionale dedicarono le loro forze nel creare un perfetto connubio tra architettura, pittura, scultura e arti decorative progettando e facendo costruire secondo un gusto che variava secondo le diverse anime Liberty. In esposizione progetti, disegni, bozzetti, quadri e oggetti di Ettore Ximenes, Duilio Cambellotti, Vittorio Grassi, Giuseppe Palanti, Paolo Sironi, Raimondo D’Aronco, Ernesto Basile.
Le arti decorative
L’esplosione delle tendenze Liberty in Italia si ebbe soprattutto in occasione dell’esposizione di Torino del 1902, quando in altri paesi già si avvertivano segnali di crisi, e a Vienna cominciavano a emergere prove di quello che sarebbe stato definito “Stile Secessione”. In Italia se da una parte si affermava il florealismo di stampo storicista (che venne definito “Dolce Stil Novo”), vi erano già i prodromi di quello che sarebbe stato il cosiddetto modernismo (Randone, Vincenzo Jerace, Ernesto Basile). I premi dell’esposizione torinese andarono non a caso al binomio Basile-Ducrot (che poco dopo iniziò a collaborare con Duilio Cambellotti) e a Galileo Chini.
La scultura
Sulla scia dei nudi sinuosi e delle ninfe marine che avevano caratterizzato molte sculture pubbliche di fine Ottocento, la tendenza più marcatamente Liberty in scultura è espressa dall’opera di artisti come Domenico Trentacoste o Pietro Canonica. Ma gli scultori italiani avevano iniziato già attorno al 1880 ad avvertire le prime inquietudini del Simbolismo, come ad esempio Leonardo Bistolfi e, accanto a questi, muovevano i primi passi anche i giovani cresciuti non più sui modelli ottocenteschi nazionali ma sui grandi maestri stranieri: Attilio Selva, Giovanni Primi, Ercole Drei, Nicola d’Antino.
La grande pittura decorativa
La vera tendenza sintetica, connaturata al decorativismo, alla sintesi coloristica, alle campiture piatte tipiche del Liberty internazionale, si espresse soprattutto nei cicli di affreschi, privati e pubblici, realizzati da Edoardo Gioia, Galileo Chini (decorazioni per edifici termali e ville private), Adolfo De Carolis, Annibale Brugnoli, Giulio Bargellini e Antonio Rizzi (Vittoriano).
I manifesti
In anni in cui è massima l’attenzione verso il mondo delle arti applicate, della decorazione, di quello che verrà chiamato design, nella necessità di  rivalutare il rapporto tra industria e artigianato educando il popolo ad una diffusa bellezza dell’oggetto di uso quotidiano, anche il manifesto diventa un canale attraverso il quale l’artista moderno può veicolare la propria creatività, rendendosi attivo e utile nel diffondere i frutti benefici della rivoluzione industriale.
Partecipando dell’atmosfera culturale dominante, artisti come Adolfo De Carolis, Adolfo Hohenstein, Aleardo Terzi, Plinio Nomellini, Galileo Chini, Leonardo Bistolfi, Vittorio Grassi o Umberto Boccioni si dedicano alla nuova “arte del manifesto”, e applicano anche in questo settore gli stilemi delle tendenze figurative del momento. In mostra manifesti mai visti di grandi dimensioni e dall’impatto coloristico dirompente.

Orari
dal martedì al giovedì 10.00-13.00/15.00-19.00
venerdì, sabato e festivi 10.00-19.00 – lunedì chiuso

giovedì 27 ottobre 2016

Su quel ramo del lago di Como...


Image
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Ciao gioacchino,
le nostre guide si arricchiscono di una nuova puntata, dedicata al sentimento più difficile da raccontare.
Tra le coppie di innamorati che hanno acceso la fantasia dei lettori, quella di Renzo e Lucia è senz’altro una delle più famose. Eppure il loro amore non è certo il “solito” amore che siamo abituati a leggere nelle opere di finzione.
Dimenticate la passione travolgente e le emozioni folli. Secondo Manzoni l'amore più forte e duraturo è quello che lega i personaggi principali dei Promessi Sposi, che, pur mai scambiandosi un'effusione, riescono a superare una delle vicende più travagliate della letteratura.
Un caro saluto, la redazione di ilmiolibro.


Su quel ramo del lago di Como
che volge ad oriente
è un po' di tempo 
che non succede più niente
tra Renzo e Lucia
e tu anima mia
afflitta e perduta
ti muovi a tentoni
fra il sogno e la luna.

G. Ruocco
15/09/016
Ostia Lido

Sisma, ancora scosse nel centro Italia. Migliaia di sfollati


Sisma, ancora scosse nel centro Italia. Migliaia di sfollati




 

ARTE E POESIA --- CHI, COME e PERCHé


Edizioni Comed di Milano nel 1991 nella collana "I PROFILI D'ARTE"
editarono 

Arte e Poesia

presentato dalla storica dell'arte Anna Iozzino
che affiancò alle immagini delle opere di 56 artisti contemporanei
le poesie di Gioacchino Ruocco.




Pensai di inviare una copia del volumetto
alla NESTLE Italiana spa 
a PERUGIA  con raccomandata  postale
suggerendo un'idea in linea con la loro tradizione dolciaria.

Al sottoscritto autore delle poesie
non  mai pervenuto uno scritto di disinteresse 
né di ringraziamento.

FORSE 
la spedizione andò persa o finì nelle mani di chi 
per motivi diversi se ne appropriò.

Vorrei chiedere al destinatario, dopo aver rintracciato tra le mie carte la ricevuta di spedizione,
se il libro è mai pervenuto  presso l'azienda
e se si che uso ne è stato fatto.

Distinti saluti, Gioacchino Ruocco





mercoledì 26 ottobre 2016

Taglia stipendi ai deputati



La BCE contro Fininvest


Le moto accelerano


MEDARDO ROSSO La luce e la materia


L'ECLETTICO - web "aperiodico"

MEDARDO ROSSO
La luce e la materia

Ricordo che nella mia infanzia, ogni volta che accompagnavo il mio amico del cuore a casa di suo nonno, restavo sempre colpito dallo sguardo furbo degli occhi sottili sotto il berretto di quel bambino che si volta all’improvviso mostrandoti un sorriso allegro al quale manca qualche dente e che i suoi proprietari chiamavano il Birichino di Parigi (mescolando un poco le sue diverse denominazioni di cui si dirà più avanti).
Una volta cresciuto, con sorpresa l’ho ritrovato alla Villa Reale di Milano nelle collezioni della Galleria d’Arte Moderna. Inesperto d’arte non avevo mai saputo che si trattava di un bronzo di uno dei maggiori scultori italiani, Medardo Rosso (Torino 1858 – Milano 1928), e che ne esistessero più copie. E mi ha fatto effetto pensare che, nella cerchia delle mie conoscenze (non certo costituita da capitani d’industria), vi fosse stato chi quotidianamente conviveva con una scultura che impreziosisce una importante sezione dei Musei Civici.
Una sensazione ancora più particolare me l’ha data il ritrovare questo “ragazzino”, fotografato nell’atelier dello scultore suo autore assieme a lui e ad altre opere, sorridermi di nuovo dal pannello che accoglie i visitatori della mostra Medardo Rosso, la luce e la materia allestita proprio al piano terra della GAM ed aperta fino al 31 maggio (info qui).
La luce è la vera essenza della nostra esistenza, senza luce non esiste nulla. Degno omaggio a questa convinzione del protagonista della mostra è l’allestimento che fascia le opere con luci morbide alternate alla penombra e gioca (volutamente o involontariamente) a moltiplicarle nei loro riflessi fra gli specchi che arredano le sale ed i cristalli delle teche temporanee che le proteggono.
Una luce che permette di apprezzare le variazioni cromatiche della trentina fra bronzi, cere e gessi che si alternano sul percorso del visitatore. Già perché, come il bronzo non è soltanto nero ma può sfumare nel grigio piombo o scolorare nel bruno, il gesso, al contrario, non sempre è candido ma può essere colorato di nero o patinato in rosso ed il bianco della cera da quasi marmoreo può assumere sfumature giallastre e trasparenze ambrate.
Il suggerimento che ci sentiamo di dare è di visitare questa mostra con molta calma, possibilmente in orari in cui è minima la presenza di altri visitatori e senza audio guida, semmai annotandosi qualche appunto.
Noi ci abbiamo passato tre ore a cavallo dell’ora di pranzo in un silenzio che ci ha davvero permesso di entrare in risonanza con l’arte di Medardo, che Guillaume Apollinaire definì il più grande scultore del suo tempo.
Del resto questo è proprio quello che l’artista voleva: far dimenticare la materia e ristabilire ciò che manca grazie al contatto emotivo suscitato nell’osservatore.
Chiave di lettura per la visita è trovare il giusto punto di vista dal quale ammirare queste opere.
Secondo Medardo, come già era stato per molte sculture di Bernini che le lasciava incompiute nella parte posteriore, non si possono realizzare opere alle quali si possa girare attorno, e questo rende ragione del fatto che alcuni bronzi in mostra sul retro siano addirittura cavi.
Inoltre non sono fatte per essere toccate (cosa che molti, purtroppo, dimenticano) e questa è un’indicazione sulla distanza minima da mantenere dall’opera: quella che non consente di allungare il braccio ed avvicinarla con la mano. Quello che conta, per entrare in relazione con una scultura, è saperla guardare, è l’impressione visiva che suscita in noi, sono i suoi echi nella nostra coscienza.
L’ultimo requisito da individuare è, infine, l’esatto punto di vista unico dal quale l’artista vuole che si guardi la sua scultura. Dopo esserci cimentati nell’impresa durante la visita, si potrà verificare se lo si è davvero trovato confrontandosi con le foto delle opere alle pareti delle sale e nella loro ampia raccolta a fine mostra, della quale costituiscono uno degli aspetti più interessanti.
Se infatti fra bronzi, gessi e cere, la collezione della GAM di Milano (incluse le opere rimaste al primo piano) avrebbe potuto reggere anche da sola l’intera esposizione, le fotografie provengono da diverse raccolte, anche private, ed a mostra terminata sarà impossibile rivederle tutte assieme, per di più a diretto contatto con i rispettivi soggetti dal vero.
Ed occorre aggiungere che, nelle sue foto, Medardo inquadra le sue sculture al modo in cui intende che dovrebbe guardarle l’osservatore. Inoltre per lui la fotografia non è solo documentazione ma vera espressione artistica di senso compiuto. Ne aveva grande competenza tecnica, frutto di una sua ricerca autonoma da fine Ottocento, parallela alla continua rielaborazione e riedizione delle sculture dei primi del Novecento, consistente nella ripresa di poche essenziali immagini di sue opere (quindi ben lontano dal nostro abuso contemporaneo che appesantisce la memoria dei nostri computer di files con migliaia di immagini che non guarderemo mai più), nel rifotografare scatti di altri e ritagli di articoli pubblicati sui giornali… Viraggi, scontornature, intervento del caso ed anche errore sono tutti suoi momenti artistici.
Infine, ben fatti sono i 10’ del video di presentazione col quale, a seconda delle preferenze, si potrebbe iniziare la visita, per averne una sintetica presentazione, oppure concluderla, per riordinare le idee ed assimilarle prima di ripercorrerla allo scopo di imprimersi nella memoria le forme che Medardo Rosso ha dato alla materia.
La prima che ci viene presentata è la Ruffiana: di cui sono accostati il rossiccio gesso patinato del Museo Rosso di Barzio) ed il grigio bronzo della GAM di Milano. La sua bocca sdentata sembra aperta in un sorriso ma a ben guardarne da vicino la piega degli occhi trasmette, al contrario, tristezza. Entrambe sono firmate “MRosso” sulla spalla a destra, ma sulla base della prima si legge “Margherita”, mentre sul battente della porta in legno su cui è montata la Mezzana – Maquerelle della fotoincisione nella sala successiva è scritto FINE ad indicare la transitorietà, il tempo che passa. Era accoppiata con Il Vecchio e le due opere si accompagnavano anche in altre denominazioni come Faust e Margherita o Filemone e Bauci (la coppia di anziani che accolgono nella propria povera capanna Zeus ed Ermes che percorrono la Frigia in sembianze umane ed ai quali nessun’altro offre ospitalità) a dimostrazione che a Medardo Rosso non interessavano i titoli ma proporre un realismo integrale distaccato.
Denominazioni ancora varie per l’unica opera, fra quelle esposte, che trasmette inequivocabilmente allegria e che abbiamo richiamato in apertura: il Birichino, altrimenti detto lo Scugnizzo o, alla francese, Gavroche. Così è chiamato nella fotoincisione in cui compare con la didascalia “dopo una scappata”, su uno sfondo di coperte a righe accuratamente disposte in modo che queste risultino ortogonali fra loro per far risaltare la figura. Dei due bronzi della GAM milanese la mostra propone quello montato su una trave, firmato “M Rosso” sul lembo della spalla destra (l’altro, con base in bronzo, è rimasto al primo piano del museo, col pregio di poter essere ammirato senza la barriera del vetro di protezione), affiancato a quello della GAM di Torino senza base e firmato “Rosso” sul berretto.
Realizzato nel suo studio in via Solferino, il Birichino è un tema privilegiato delle istanze realistico sacrali di Medardo Rosso negli anni attorno al 1883, quando viene espulso dall’Accademia di Brera (dove era stato ammesso il 4 maggio 1882) per avervi capeggiato una protesta. Sono i suoi esordi nel naturalismo col gusto per l’aneddoto e la torsione della figura nello spazio.
 
Presentano soltanto i profili sinistri (e sono cavi sul destro) i bronzi del Sagrestano (Milano, GAM, firmato sulla nuca “Rosso”) e della Portinaia (Budapest, Szépmuvészeti Mùzeum), su base in legno, di cui al piano superiore la GAM espone una cera su gesso. Entrambi guardano in basso e le loro silhouettes sono belle anche se guardate dal lato vuoto, un po’ come Il Sogno di Debussy che recentemente ci è capitato di ascoltare suonato al contrario con un risultato non sgradevole!
Nel Sagrestano, riconducibile al gusto della Scapigliatura, l’intento dissacratorio è evidente nel modo in cui è reso il suo “nasone” che sembra di vedere arrossato e pende verso la base in pietra levigata: venata di rosso con la particolare forma di scarpa in allineata continuità col busto del bronzo che le si appoggia leggero e quasi sospeso nell’aria.
Intento caricaturale ancor più esplicito nel titolo della fotoincisione “Se la fuss grapa – Si c’était de l’eau de vie” nella quale il Sagrestano “sbronzo” è fotografato in non certo casuale accostamento col quadretto di una santa in estasi appeso alla parete alle sue spalle ed al quale è parzialmente sovrapposto.
Direttamente riconducibile alla biografia di Medardo Rosso è il bronzo Aetas aurea (Parigi, Musée d’Orsay) nel quale vibra l’abbraccio della moglie, sposata il 16 aprile 1885 (dalla quale si separerà), all’amatissimo figlio Francesco Luigi Domenico nato il 7 novembre e chiamato all’anagrafe Francesco Evviva Ribelle. A lui si devono la realizzazione del Museo Rosso di Barzio e la donazione di opere alla GAM di Milano, fra cui tutte le cere su gesso non in mostra ma visibili salendo al piano superiore di Villa Reale (inclusa questa che lo ritrae infante - foto sopra).
Se al gusto contemporaneo quest’opera non risulta difficile da apprezzare è il caso di considerare che all’epoca in cui queste moderne teste senza base di una madre dal viso piatto ed informe che solleva una mano emergente dal nulla verso il suo bambino che non si capisce (ancora una volta!) se pianga o rida, le sculture in bronzo raffiguravano, con perfetta riproduzione di ogni dettaglio, nobiluomini a cavallo.
Anche di quest’opera in sala V è esposta una stampa moderna a contatto da negativo originale su vetro particolarmente bella.
 
Altri bambini ci attendono nelle sale successive. Tutti abbastanza somiglianti l’uno all’altro e dell’apparente medesima età, corrispondente a quella dell’odierna scuola primaria. La prima che incontriamo è la Bambina ridente (Barzio, Museo Rosso - foto), cera su gesso montata su piramide tronca in legno. Il soggetto è presente a Milano oltre che, ancora, alla GAM anche nella Collezione Jesi della Pinacoteca di Brera.
Risalente al 1889, anno in cui Medardo è appena arrivato a Parigi, è l’istantanea di un riso luminoso, aperto al sorriso enigmatico delle rieuses, e non più un riso nel senso di memento mori come nella Ruffiana e nelle altre opere lombarde.
Sotto il foulard che sembra avere in testa, i tratti realistici si sciolgono: siamo in un momento di passaggio dell’arte di Medardo Rosso che, dal realismo scapigliato, approderà ad una nuova poetica impressionista alla quale, paradossalmente, arriva rievocando qui il XV secolo e precisamente il Putto ridente (1460-64, Vienna, Kunsthistorisches Museum - foto) di Desiderio da Settignano (Settignano, ca. 1428 - Firenze, 1464).
Da notare che Medardo Rosso continua a giocare ambiguamente sul fatto che questa sua bambina rida, sia malinconica o pianga in funzione dell’angolazione con la quale la luce la colpisce e del punto di vista dell’osservatore. Il quale, posizionandosi alla sua sinistra, ne riceverà il sorriso dal suo riflesso della teca di cristallo.
 
In contrasto cromatico ed emotivo con il bianco marmoreo della Bambina ridente è il gesso dipinto (in maniera non uniforma) di nero dell’Enfant juif(Barzio, Museo Rosso, 1893 - foto a lato) anch'esso presente, in cera, anche a Brera. Di questo bambino ebreo, dal mento a punta, col folto ciuffo di capelli che gli ricade sulla fronte e che, se guardato da lontano, sembra anch’esso piangere, non si conosce l’identità. Del resto qui la scultura ormai ha superato il ritratto e ci offre le risonanze emotive ed i ricordi del modello rimasti nell’occhio dell’artista dopo il contatto diretto. Curiosa, infine, è la collocazione dell’opera in una nicchia nella foto (in sala V) dove è ritratta.
La storia del bronzo della Rieuse (Parigi, Musée Rodin), firmato, datato e dedicato in basso a destra “M. Rosso 189[3] / a Rodin” ci porta al rapporto di iniziale stima fra Rosso e Rodin. Quest’ultimo la vide in cera nello studio dell’italiano e ne ottenne successivamente la prima fusione nota, che ricambiò col suo Torso - frammento di Uomo che cammina.
Nel 1898 si parlò di influenze di Rosso su Rodin e del 1901 è la polemica dell’impressionismo in scultura dei due, le cui relazioni, da amichevoli che erano, divennero successivamente tese.
La testa sporge di lato e in avanti, il suo volto, liscio con le labbra dischiuse in un largo sorriso, sembra quasi maschile. In netto contrasto con la base, lucida e tornita in marmo giallo e rosso, il busto, dai bordi slabbrati e irregolari, è tagliato in diagonale con piani palpitanti della trattazione, che diventa vibrante sulla superficie accidentata della capigliatura: rappresa in grumi e slittamenti materici.
Accanto ad essa, come una testa di Medusa ma senza la chioma di serpenti saettanti, è la Grande Rieuse (Milano, GAM, 1903‐1904 - foto a lato): cera su gesso concepita un anno prima e modificata eliminandone progressivamente il retro (in una foto in sala V si vede com’era la versione intera), il busto, la base del collo fino a ridurla ad una forma ancestrale, ad una maschera atemporale del volto nel quale più nulla c’è del modello, disperso fra crepe ed incisioni delle superfici ora lisce e compresse, ora rapprese a grumi e rattoppi.
Una strada sulla quale Medardo Rosso si incammina con ancora maggiore determinazione nel bronzo (Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti) e nelle due cere su gesso (Barzio - in foto a lato - e GAM di Milano) del coevo L’Uomo che legge. Irriconoscibile dal retro, anche di fronte se ne intuiscono a malapena il naso, l’occhio, la barba a punta, il cappello e la piega dei calzoni. È come appoggiato sul suo fianco destro su un tronco, col piano basale inclinato di 45° nel bronzo ed orizzontale nelle cere su gesso. L’uomo e l’ambiente si compenetrano nella raffigurazione, corrispondente alla prima sensazione provata dall’artista che, per offrire del soggetto una visione simultanea - come per i Futuristi -, scardina la prospettiva rinascimentale volendo che: “l’occhio possa percepire un sentimento della prospettiva totalmente diverso da quello che risulta dalla prospettiva insegnata nelle scuole”.
Nella vita parigina Medardo Rosso frequenta letterati come Zola e Goncourt ed altri artisti fra i quali Degas, la cui idea del legame fra pittura e scultura si ritrova nel Bookmaker (allibratore di scommesse) in mostra in bronzo (Milano, GAM - foto a lato) e cera (Rovereto, MART). Figura senza volto, intera e corpulenta, col cilindro in testa, si appoggia col bastone da passeggio alla base ribollente, come dicchi solidificati delle isole a nord della Gran Bretagna, del piano inclinato solidalmente al quale, con la rigidità di una Torre di Pisa, crolla di lato. L’insieme dà l’idea di una colata di materia che si stia sciogliendo. Il cavo e la scala sullo sfondo nella foto alla sala V sembrano quasi un’ironia per raddrizzarla. Alla nostra fantasia il tutto pare una parodia del Maresciallo Ney di Giuseppe Grandi, nella Sala XXI al piano superiore, che merita una visita.
Nel Bookmaker è stato identificato Eugène Marin (1859‐1899), genero del collezionista Henri Rouart che è, invece, molto ben riconoscibile nelle tre grandi sue versioni che gli stanno accanto: cera nera su gesso (Milano, GAM) lucida e tendente al marrone, bronzo (Winterthur, Kunstmuseum) più grigio ed opaco e infine il gesso (Barzio - foto a lato) il cui bianco esplode per contrasto presentando una testa emergente da una roccia calcarea. Come in Bernini, nella spalla destra abbassata, nel gomito piegato e nell’accenno del pollice e delle altre dita della mano che spunta in basso sotto il “panneggio”, Medardo Rosso comunica il senso del movimento di una persona che trasmette pace e serenità, forse per il vistoso, rassicurante, grande fiocco che porta al collo.
Il gioco di ombre e luci degli occhi incassati non permettono di capire se sorrida o sia pensieroso, lo zigomo sporgente e la piega della bocca col labbro sinistro abbassato ci inducono il pensiero che stia ragionando, magari proprio di fronte ad un’opera dello stesso Medardo?
Le tre opere appena descritte hanno come singolare comunanza il fatto che Medardo Rosso abbia lasciato trascorrere tanti anni fra la loro realizzazione e l’esposizione al pubblico (accomunato in questo ad artisti come il pittore Georges Bracque ed al contrario di Picasso: che vendeva i suoi quadri prima ancora di averli terminati!): 14 per Rouart, 9 per il Bookmaker ed 8 per L’uomo che legge.
E lo stesso vale per una delle sue sculture più misteriose: Madame X, cera su gesso del 1896 (foto a lato) che fa la sua prima comparsa alla Biennale di Venezia, nella sala rossa, nel 1914, su basamento di legno spartano squadrato e semplicissimo, e donata con altre sei opere alla GAM di Ca’ Pesaro a Venezia da dove è arrivata a Milano. Opera unica mai replicata, se mai è stata un ritratto lo è stata solo di un’immagine nella mente dell’artista; non vi si coglie la volontà di restituire un personaggio riconoscibile come, pur nella semplificazione dei tratti, è invece possibile, ad esempio, nei ritratti di Modigliani. Senza qualsiasi riferimento contingente è solo una maschera di un volto del quale si rilevano appena il naso e l’incavo dell’orbita dell’occhio destro mentre il sinistro si intuisce per via della cera lì più scura. La bocca è assente e in più punti, come sulla guancia sinistra che sembra quasi una ferita, la cera è assottigliata fino al gesso che è l’anima piena e solida di quest’opera: perfetta astrazione del dato reale, accantonato e bruciato in un’estrema sintesi plastica.
Col suo volume ovoidale, che la rende simile ai volti delle sculture cicladiche, anticipa i “primitivi” come il citato Modigliani e la Musa addormentata di Brancusi (vedi in Il volto del Novecento) del 1910 della quale è la sorella più prossima. Molto curioso il fatto che, nella foto in sala V, Madame X nello studio di Boulevard des Batignolles (1900 circa), il suo autore le dà addirittura un corpo: come fosse avvolto in una coperta.
Espressione di una raggiunta piena maturità ed incompatibile con le sue prime opere francesi, che ancora risentono del realismo formale descrittivo, ed anch’essa prefigurante Brancusi per la sua perfetta forma d’uovo, è la testa dell’Enfant malade, che ricorda certi visi nei pastelli di Odilon Redon (un esempio dei quali è esposto a Brera). Anche nei dettagli dei piccoli movimenti per i capelli, della bocca semisocchiusa sulla sinistra, della mascella che cade abbandonata, c’è il rifiuto del descrittivismo e nella forma sintetica pulsa l’ultimo anelito di energia del bambino morente. Da alcuni datata al 1889 per uno studio risalente al mese di ottobre di quell’anno trascorso all’ospedale Lariboisière, Medardo Rosso la riferisce invece al 1893-95, quindi il modello e le circostanze che generano l’opera sono filtrate dal ricordo. Paradossale dettaglio da installazione d’arte contemporanea: lo strumento elettronico lampeggiante posizionato fra la cera su gesso (Dresda, Staatliche Kunstammlungen) e il bronzo (Milano, GAM - foto sopra) per controllarne le condizioni, diventa quasi un richiamo a moderne apparecchiature mediche per tenere in vita il bambino!
Ulteriore curiosità è il fatto che nella foto in sala V, così come altre opere, anche l’Enfant malade nello studio di Boulevard des Batignolles sia stato messo “in posa” dal suo autore inquadrandolo con una cornice.
Conclude la serie dei bambini di Medardo Rosso Ecce puer, che è proposto nelle tre versioni in gesso patinato (Milano, GAM - foto a lato), in cera su gesso (Firenze, collezione privata) ed in bronzo (Venezia, Ca’ Pesaro).
Medardo Rosso, ospite nella casa di Londra presso Hyde Park dell’industriale Emile Mond (figlio di Ludwig Mond che donò un’imponente collezione del Rinascimento italiano alla National Gallery) ne ritrae il figlio William. Si dice che fosse in difficoltà nel realizzare l’opera poi il bambino gli sbucò all’improvviso di fronte ed allora si ritirò tutta la notte in stanza a lavorarci. Più facile invece che sia stato realizzato a Parigi nel laboratorio di Batignolles nel quale ce lo mostrano due fotografie: nella prima, in cui lo ritrae di profilo, Medardo sembra davvero aver fermato l’attimo in cui si è detto che avesse visto il ragazzino correre nella luce di una porta, quasi come per il momento fissato da Bernini nell’Apollo e Dafne di Villa borghese a Roma; nella seconda sono inquietanti le lime, simili a pugnali, appese sullo sfondo.
In quest’opera che, forse, più di altre va guardata da lontano, non è l’artista ma il ragazzo che sembra essere più sorpreso, quasi perplesso e con l’atteggiamento di chi sembra chiedere qualcosa.
È esposta in cera al Salon d’Automne nel 1906 con diversi titoli: Impression d’enfant e Portrait d’Emile Mond, confondendo il nome del padre con quello del figlio. Il nuovo titolo Ecce puer compare nel 1909 in una lettera di Medardo ad Ardengo Soffici (scrittore saggista poeta e pittore) e nelle pubblicazioni successive al 1911.
Ecce puer, la cui prima fusione fu persa, è l’ultima opera di Medardo Rosso. Dopo di essa lavorò solo a rielaborazioni e nuove fusioni di precedenti soggetti. Forse per questa ragione fu scelta per la sepoltura dell’artista al cimitero Monumentale di Milano, accompagnata dall’epigrafe: Fine di una vita principio di un’arte.
Medardo Rosso muore nel 1928 per le conseguenze di ferite causate dalla caduta su un piede di pesanti lastre nello studio di Milano. Ultimo paradossale incidente di altri occorsigli in vita come la caduta da un tram durante un soggiorno a Vienna ed il grave incidente d’auto a Hendaye-Plage in Francia (Aquitania) al confine con la Spagna sull’Atlantico.
L’ultima opera in mostra è Madame Noblet, nelle versioni in gesso (Roma, GAM), dalla base più ampia, ed in bronzo (Milano, GAM - foto a lato). Lo stesso Medardo la data al 1897. Innaturale, potente, senza collo né base, del modello non ha abiti e stoffe, non dettagli e, viene da pensare, nemmeno il carattere della all’epoca 48enne Anne Lostau (1849-1922), moglie del medico e collezionista parigino Louis Sylvain Noblet che Medardo, in una lettera a Rodin del 1896, indica come suo cliente.
Monumentale come una montagna dall’apparenza tozza, la fusione sembra una lenta colata di piombo, pesante come antichissime rocce basaltiche. Il volume è appena intaccato dalle asperità della superficie dove la sicurezza del gesto modella piani frastagliati e lascia in vista i segni della spatola e delle dita. È come materia ancora morbida appena sbozzata nella sua potente larghezza, schiacciata a terra, dalla quale affiorano solo l’occhio sinistro, il naso piegato verso destra e la bocca chiusa.
È bello vederla fotografata nello studio di Boulevard des Batignolles nel quale è stata realizzata. Studio che, con gli attrezzi del mestiere appesi in bell’ordine alla parete alle sue spalle, è simile ad una sala operatoria di chirurgia ortopedica ed in singolare contrasto con le atmosfere rarefatte della mostra.
Esposta in diverse mostre, il figlio Francesco la dona alla GAM di Milano nel 1953. Ed è bello che Milano dedichi a Medardo questa bella mostra proprio nell’anno di EXPO 2015: quasi a risarcimento dell’esclusione dall’EXPO 1904 di Parigi patita a motivo delle sue origini italiane!
Le ultime due opere che, infine, ancora segnaliamo come appendice si trovano, come le altre citate in precedenza, nelle collezioni permanenti della GAM di Milano al piano superiore.
Sono due cere su gesso: rossa per il Bambino alle cucine economiche(titolata anche Bambino all’asilo dei poveri) e bianca per la fuggevole impressione dell’improvvisa apparizione in una via parigina della misteriosa Femme à la voilette (foto a lato - anch'essa in altra copia anche a Brera) inutilmente rincorsa ed immediatamente inghiottita dalla folla dei passanti. Chissà che non sia possibile incontrarla nella penombra serale aggirandosi per le più occulte vie di Milano una volta varcato in uscita l’arco della GAM su via Palestro.
Meglio tenere gli occhi aperti.
 
Giovanni Guzzi, aprile 2015
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