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MEDARDO ROSSO
La luce e la materia
Ricordo che nella mia infanzia, ogni volta che accompagnavo il mio amico del cuore a casa di suo nonno, restavo sempre colpito dallo sguardo furbo degli occhi sottili sotto il berretto di quel bambino che si volta all’improvviso mostrandoti un sorriso allegro al quale manca qualche dente e che i suoi proprietari chiamavano il Birichino di Parigi (mescolando un poco le sue diverse denominazioni di cui si dirà più avanti).
Una volta cresciuto, con sorpresa l’ho ritrovato alla Villa Reale di Milano nelle collezioni della Galleria d’Arte Moderna. Inesperto d’arte non avevo mai saputo che si trattava di un bronzo di uno dei maggiori scultori italiani, Medardo Rosso (Torino 1858 – Milano 1928), e che ne esistessero più copie. E mi ha fatto effetto pensare che, nella cerchia delle mie conoscenze (non certo costituita da capitani d’industria), vi fosse stato chi quotidianamente conviveva con una scultura che impreziosisce una importante sezione dei Musei Civici.
Una sensazione ancora più particolare me l’ha data il ritrovare questo “ragazzino”, fotografato nell’atelier dello scultore suo autore assieme a lui e ad altre opere, sorridermi di nuovo dal pannello che accoglie i visitatori della mostra Medardo Rosso, la luce e la materia allestita proprio al piano terra della GAM ed aperta fino al 31 maggio (info qui).
La luce è la vera essenza della nostra esistenza, senza luce non esiste nulla. Degno omaggio a questa convinzione del protagonista della mostra è l’allestimento che fascia le opere con luci morbide alternate alla penombra e gioca (volutamente o involontariamente) a moltiplicarle nei loro riflessi fra gli specchi che arredano le sale ed i cristalli delle teche temporanee che le proteggono.
Una luce che permette di apprezzare le variazioni cromatiche della trentina fra bronzi, cere e gessi che si alternano sul percorso del visitatore. Già perché, come il bronzo non è soltanto nero ma può sfumare nel grigio piombo o scolorare nel bruno, il gesso, al contrario, non sempre è candido ma può essere colorato di nero o patinato in rosso ed il bianco della cera da quasi marmoreo può assumere sfumature giallastre e trasparenze ambrate.
Il suggerimento che ci sentiamo di dare è di visitare questa mostra con molta calma, possibilmente in orari in cui è minima la presenza di altri visitatori e senza audio guida, semmai annotandosi qualche appunto.
Noi ci abbiamo passato tre ore a cavallo dell’ora di pranzo in un silenzio che ci ha davvero permesso di entrare in risonanza con l’arte di Medardo, che Guillaume Apollinaire definì il più grande scultore del suo tempo.
Del resto questo è proprio quello che l’artista voleva: far dimenticare la materia e ristabilire ciò che manca grazie al contatto emotivo suscitato nell’osservatore.
Chiave di lettura per la visita è trovare il giusto punto di vista dal quale ammirare queste opere.
Secondo Medardo, come già era stato per molte sculture di Bernini che le lasciava incompiute nella parte posteriore, non si possono realizzare opere alle quali si possa girare attorno, e questo rende ragione del fatto che alcuni bronzi in mostra sul retro siano addirittura cavi.
Inoltre non sono fatte per essere toccate (cosa che molti, purtroppo, dimenticano) e questa è un’indicazione sulla distanza minima da mantenere dall’opera: quella che non consente di allungare il braccio ed avvicinarla con la mano. Quello che conta, per entrare in relazione con una scultura, è saperla guardare, è l’impressione visiva che suscita in noi, sono i suoi echi nella nostra coscienza.
L’ultimo requisito da individuare è, infine, l’esatto punto di vista unico dal quale l’artista vuole che si guardi la sua scultura. Dopo esserci cimentati nell’impresa durante la visita, si potrà verificare se lo si è davvero trovato confrontandosi con le foto delle opere alle pareti delle sale e nella loro ampia raccolta a fine mostra, della quale costituiscono uno degli aspetti più interessanti.
Se infatti fra bronzi, gessi e cere, la collezione della GAM di Milano (incluse le opere rimaste al primo piano) avrebbe potuto reggere anche da sola l’intera esposizione, le fotografie provengono da diverse raccolte, anche private, ed a mostra terminata sarà impossibile rivederle tutte assieme, per di più a diretto contatto con i rispettivi soggetti dal vero.
Ed occorre aggiungere che, nelle sue foto, Medardo inquadra le sue sculture al modo in cui intende che dovrebbe guardarle l’osservatore. Inoltre per lui la fotografia non è solo documentazione ma vera espressione artistica di senso compiuto. Ne aveva grande competenza tecnica, frutto di una sua ricerca autonoma da fine Ottocento, parallela alla continua rielaborazione e riedizione delle sculture dei primi del Novecento, consistente nella ripresa di poche essenziali immagini di sue opere (quindi ben lontano dal nostro abuso contemporaneo che appesantisce la memoria dei nostri computer di files con migliaia di immagini che non guarderemo mai più), nel rifotografare scatti di altri e ritagli di articoli pubblicati sui giornali… Viraggi, scontornature, intervento del caso ed anche errore sono tutti suoi momenti artistici.
Infine, ben fatti sono i 10’ del video di presentazione col quale, a seconda delle preferenze, si potrebbe iniziare la visita, per averne una sintetica presentazione, oppure concluderla, per riordinare le idee ed assimilarle prima di ripercorrerla allo scopo di imprimersi nella memoria le forme che Medardo Rosso ha dato alla materia.
La prima che ci viene presentata è la Ruffiana: di cui sono accostati il rossiccio gesso patinato del Museo Rosso di Barzio) ed il grigio bronzo della GAM di Milano. La sua bocca sdentata sembra aperta in un sorriso ma a ben guardarne da vicino la piega degli occhi trasmette, al contrario, tristezza. Entrambe sono firmate “MRosso” sulla spalla a destra, ma sulla base della prima si legge “Margherita”, mentre sul battente della porta in legno su cui è montata la Mezzana – Maquerelle della fotoincisione nella sala successiva è scritto FINE ad indicare la transitorietà, il tempo che passa. Era accoppiata con Il Vecchio e le due opere si accompagnavano anche in altre denominazioni come Faust e Margherita o Filemone e Bauci (la coppia di anziani che accolgono nella propria povera capanna Zeus ed Ermes che percorrono la Frigia in sembianze umane ed ai quali nessun’altro offre ospitalità) a dimostrazione che a Medardo Rosso non interessavano i titoli ma proporre un realismo integrale distaccato.
Denominazioni ancora varie per l’unica opera, fra quelle esposte, che trasmette inequivocabilmente allegria e che abbiamo richiamato in apertura: il Birichino, altrimenti detto lo Scugnizzo o, alla francese, Gavroche. Così è chiamato nella fotoincisione in cui compare con la didascalia “dopo una scappata”, su uno sfondo di coperte a righe accuratamente disposte in modo che queste risultino ortogonali fra loro per far risaltare la figura. Dei due bronzi della GAM milanese la mostra propone quello montato su una trave, firmato “M Rosso” sul lembo della spalla destra (l’altro, con base in bronzo, è rimasto al primo piano del museo, col pregio di poter essere ammirato senza la barriera del vetro di protezione), affiancato a quello della GAM di Torino senza base e firmato “Rosso” sul berretto.
Realizzato nel suo studio in via Solferino, il Birichino è un tema privilegiato delle istanze realistico sacrali di Medardo Rosso negli anni attorno al 1883, quando viene espulso dall’Accademia di Brera (dove era stato ammesso il 4 maggio 1882) per avervi capeggiato una protesta. Sono i suoi esordi nel naturalismo col gusto per l’aneddoto e la torsione della figura nello spazio.
Presentano soltanto i profili sinistri (e sono cavi sul destro) i bronzi del Sagrestano (Milano, GAM, firmato sulla nuca “Rosso”) e della Portinaia (Budapest, Szépmuvészeti Mùzeum), su base in legno, di cui al piano superiore la GAM espone una cera su gesso. Entrambi guardano in basso e le loro silhouettes sono belle anche se guardate dal lato vuoto, un po’ come Il Sogno di Debussy che recentemente ci è capitato di ascoltare suonato al contrario con un risultato non sgradevole!
Nel Sagrestano, riconducibile al gusto della Scapigliatura, l’intento dissacratorio è evidente nel modo in cui è reso il suo “nasone” che sembra di vedere arrossato e pende verso la base in pietra levigata: venata di rosso con la particolare forma di scarpa in allineata continuità col busto del bronzo che le si appoggia leggero e quasi sospeso nell’aria.
Intento caricaturale ancor più esplicito nel titolo della fotoincisione “Se la fuss grapa – Si c’était de l’eau de vie” nella quale il Sagrestano “sbronzo” è fotografato in non certo casuale accostamento col quadretto di una santa in estasi appeso alla parete alle sue spalle ed al quale è parzialmente sovrapposto.
Direttamente riconducibile alla biografia di Medardo Rosso è il bronzo Aetas aurea (Parigi, Musée d’Orsay) nel quale vibra l’abbraccio della moglie, sposata il 16 aprile 1885 (dalla quale si separerà), all’amatissimo figlio Francesco Luigi Domenico nato il 7 novembre e chiamato all’anagrafe Francesco Evviva Ribelle. A lui si devono la realizzazione del Museo Rosso di Barzio e la donazione di opere alla GAM di Milano, fra cui tutte le cere su gesso non in mostra ma visibili salendo al piano superiore di Villa Reale (inclusa questa che lo ritrae infante - foto sopra).
Se al gusto contemporaneo quest’opera non risulta difficile da apprezzare è il caso di considerare che all’epoca in cui queste moderne teste senza base di una madre dal viso piatto ed informe che solleva una mano emergente dal nulla verso il suo bambino che non si capisce (ancora una volta!) se pianga o rida, le sculture in bronzo raffiguravano, con perfetta riproduzione di ogni dettaglio, nobiluomini a cavallo.
Anche di quest’opera in sala V è esposta una stampa moderna a contatto da negativo originale su vetro particolarmente bella.
Altri bambini ci attendono nelle sale successive. Tutti abbastanza somiglianti l’uno all’altro e dell’apparente medesima età, corrispondente a quella dell’odierna scuola primaria. La prima che incontriamo è la Bambina ridente (Barzio, Museo Rosso - foto), cera su gesso montata su piramide tronca in legno. Il soggetto è presente a Milano oltre che, ancora, alla GAM anche nella Collezione Jesi della Pinacoteca di Brera.
Risalente al 1889, anno in cui Medardo è appena arrivato a Parigi, è l’istantanea di un riso luminoso, aperto al sorriso enigmatico delle rieuses, e non più un riso nel senso di memento mori come nella Ruffiana e nelle altre opere lombarde.
Sotto il foulard che sembra avere in testa, i tratti realistici si sciolgono: siamo in un momento di passaggio dell’arte di Medardo Rosso che, dal realismo scapigliato, approderà ad una nuova poetica impressionista alla quale, paradossalmente, arriva rievocando qui il XV secolo e precisamente il Putto ridente (1460-64, Vienna, Kunsthistorisches Museum - foto) di Desiderio da Settignano (Settignano, ca. 1428 - Firenze, 1464).
Da notare che Medardo Rosso continua a giocare ambiguamente sul fatto che questa sua bambina rida, sia malinconica o pianga in funzione dell’angolazione con la quale la luce la colpisce e del punto di vista dell’osservatore. Il quale, posizionandosi alla sua sinistra, ne riceverà il sorriso dal suo riflesso della teca di cristallo.
In contrasto cromatico ed emotivo con il bianco marmoreo della Bambina ridente è il gesso dipinto (in maniera non uniforma) di nero dell’Enfant juif(Barzio, Museo Rosso, 1893 - foto a lato) anch'esso presente, in cera, anche a Brera. Di questo bambino ebreo, dal mento a punta, col folto ciuffo di capelli che gli ricade sulla fronte e che, se guardato da lontano, sembra anch’esso piangere, non si conosce l’identità. Del resto qui la scultura ormai ha superato il ritratto e ci offre le risonanze emotive ed i ricordi del modello rimasti nell’occhio dell’artista dopo il contatto diretto. Curiosa, infine, è la collocazione dell’opera in una nicchia nella foto (in sala V) dove è ritratta.
La storia del bronzo della Rieuse (Parigi, Musée Rodin), firmato, datato e dedicato in basso a destra “M. Rosso 189[3] / a Rodin” ci porta al rapporto di iniziale stima fra Rosso e Rodin. Quest’ultimo la vide in cera nello studio dell’italiano e ne ottenne successivamente la prima fusione nota, che ricambiò col suo Torso - frammento di Uomo che cammina.
Nel 1898 si parlò di influenze di Rosso su Rodin e del 1901 è la polemica dell’impressionismo in scultura dei due, le cui relazioni, da amichevoli che erano, divennero successivamente tese.
La testa sporge di lato e in avanti, il suo volto, liscio con le labbra dischiuse in un largo sorriso, sembra quasi maschile. In netto contrasto con la base, lucida e tornita in marmo giallo e rosso, il busto, dai bordi slabbrati e irregolari, è tagliato in diagonale con piani palpitanti della trattazione, che diventa vibrante sulla superficie accidentata della capigliatura: rappresa in grumi e slittamenti materici.
Accanto ad essa, come una testa di Medusa ma senza la chioma di serpenti saettanti, è la Grande Rieuse (Milano, GAM, 1903‐1904 - foto a lato): cera su gesso concepita un anno prima e modificata eliminandone progressivamente il retro (in una foto in sala V si vede com’era la versione intera), il busto, la base del collo fino a ridurla ad una forma ancestrale, ad una maschera atemporale del volto nel quale più nulla c’è del modello, disperso fra crepe ed incisioni delle superfici ora lisce e compresse, ora rapprese a grumi e rattoppi.
Una strada sulla quale Medardo Rosso si incammina con ancora maggiore determinazione nel bronzo (Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti) e nelle due cere su gesso (Barzio - in foto a lato - e GAM di Milano) del coevo L’Uomo che legge. Irriconoscibile dal retro, anche di fronte se ne intuiscono a malapena il naso, l’occhio, la barba a punta, il cappello e la piega dei calzoni. È come appoggiato sul suo fianco destro su un tronco, col piano basale inclinato di 45° nel bronzo ed orizzontale nelle cere su gesso. L’uomo e l’ambiente si compenetrano nella raffigurazione, corrispondente alla prima sensazione provata dall’artista che, per offrire del soggetto una visione simultanea - come per i Futuristi -, scardina la prospettiva rinascimentale volendo che: “l’occhio possa percepire un sentimento della prospettiva totalmente diverso da quello che risulta dalla prospettiva insegnata nelle scuole”.
Nella vita parigina Medardo Rosso frequenta letterati come Zola e Goncourt ed altri artisti fra i quali Degas, la cui idea del legame fra pittura e scultura si ritrova nel Bookmaker (allibratore di scommesse) in mostra in bronzo (Milano, GAM - foto a lato) e cera (Rovereto, MART). Figura senza volto, intera e corpulenta, col cilindro in testa, si appoggia col bastone da passeggio alla base ribollente, come dicchi solidificati delle isole a nord della Gran Bretagna, del piano inclinato solidalmente al quale, con la rigidità di una Torre di Pisa, crolla di lato. L’insieme dà l’idea di una colata di materia che si stia sciogliendo. Il cavo e la scala sullo sfondo nella foto alla sala V sembrano quasi un’ironia per raddrizzarla. Alla nostra fantasia il tutto pare una parodia del Maresciallo Ney di Giuseppe Grandi, nella Sala XXI al piano superiore, che merita una visita.
Nel Bookmaker è stato identificato Eugène Marin (1859‐1899), genero del collezionista Henri Rouart che è, invece, molto ben riconoscibile nelle tre grandi sue versioni che gli stanno accanto: cera nera su gesso (Milano, GAM) lucida e tendente al marrone, bronzo (Winterthur, Kunstmuseum) più grigio ed opaco e infine il gesso (Barzio - foto a lato) il cui bianco esplode per contrasto presentando una testa emergente da una roccia calcarea. Come in Bernini, nella spalla destra abbassata, nel gomito piegato e nell’accenno del pollice e delle altre dita della mano che spunta in basso sotto il “panneggio”, Medardo Rosso comunica il senso del movimento di una persona che trasmette pace e serenità, forse per il vistoso, rassicurante, grande fiocco che porta al collo.
Il gioco di ombre e luci degli occhi incassati non permettono di capire se sorrida o sia pensieroso, lo zigomo sporgente e la piega della bocca col labbro sinistro abbassato ci inducono il pensiero che stia ragionando, magari proprio di fronte ad un’opera dello stesso Medardo?
Le tre opere appena descritte hanno come singolare comunanza il fatto che Medardo Rosso abbia lasciato trascorrere tanti anni fra la loro realizzazione e l’esposizione al pubblico (accomunato in questo ad artisti come il pittore Georges Bracque ed al contrario di Picasso: che vendeva i suoi quadri prima ancora di averli terminati!): 14 per Rouart, 9 per il Bookmaker ed 8 per L’uomo che legge.
E lo stesso vale per una delle sue sculture più misteriose: Madame X, cera su gesso del 1896 (foto a lato) che fa la sua prima comparsa alla Biennale di Venezia, nella sala rossa, nel 1914, su basamento di legno spartano squadrato e semplicissimo, e donata con altre sei opere alla GAM di Ca’ Pesaro a Venezia da dove è arrivata a Milano. Opera unica mai replicata, se mai è stata un ritratto lo è stata solo di un’immagine nella mente dell’artista; non vi si coglie la volontà di restituire un personaggio riconoscibile come, pur nella semplificazione dei tratti, è invece possibile, ad esempio, nei ritratti di Modigliani. Senza qualsiasi riferimento contingente è solo una maschera di un volto del quale si rilevano appena il naso e l’incavo dell’orbita dell’occhio destro mentre il sinistro si intuisce per via della cera lì più scura. La bocca è assente e in più punti, come sulla guancia sinistra che sembra quasi una ferita, la cera è assottigliata fino al gesso che è l’anima piena e solida di quest’opera: perfetta astrazione del dato reale, accantonato e bruciato in un’estrema sintesi plastica.
Col suo volume ovoidale, che la rende simile ai volti delle sculture cicladiche, anticipa i “primitivi” come il citato Modigliani e la Musa addormentata di Brancusi (vedi in Il volto del Novecento) del 1910 della quale è la sorella più prossima. Molto curioso il fatto che, nella foto in sala V, Madame X nello studio di Boulevard des Batignolles (1900 circa), il suo autore le dà addirittura un corpo: come fosse avvolto in una coperta.
Espressione di una raggiunta piena maturità ed incompatibile con le sue prime opere francesi, che ancora risentono del realismo formale descrittivo, ed anch’essa prefigurante Brancusi per la sua perfetta forma d’uovo, è la testa dell’Enfant malade, che ricorda certi visi nei pastelli di Odilon Redon (un esempio dei quali è esposto a Brera). Anche nei dettagli dei piccoli movimenti per i capelli, della bocca semisocchiusa sulla sinistra, della mascella che cade abbandonata, c’è il rifiuto del descrittivismo e nella forma sintetica pulsa l’ultimo anelito di energia del bambino morente. Da alcuni datata al 1889 per uno studio risalente al mese di ottobre di quell’anno trascorso all’ospedale Lariboisière, Medardo Rosso la riferisce invece al 1893-95, quindi il modello e le circostanze che generano l’opera sono filtrate dal ricordo. Paradossale dettaglio da installazione d’arte contemporanea: lo strumento elettronico lampeggiante posizionato fra la cera su gesso (Dresda, Staatliche Kunstammlungen) e il bronzo (Milano, GAM - foto sopra) per controllarne le condizioni, diventa quasi un richiamo a moderne apparecchiature mediche per tenere in vita il bambino!
Ulteriore curiosità è il fatto che nella foto in sala V, così come altre opere, anche l’Enfant malade nello studio di Boulevard des Batignolles sia stato messo “in posa” dal suo autore inquadrandolo con una cornice.
Conclude la serie dei bambini di Medardo Rosso Ecce puer, che è proposto nelle tre versioni in gesso patinato (Milano, GAM - foto a lato), in cera su gesso (Firenze, collezione privata) ed in bronzo (Venezia, Ca’ Pesaro).
Medardo Rosso, ospite nella casa di Londra presso Hyde Park dell’industriale Emile Mond (figlio di Ludwig Mond che donò un’imponente collezione del Rinascimento italiano alla National Gallery) ne ritrae il figlio William. Si dice che fosse in difficoltà nel realizzare l’opera poi il bambino gli sbucò all’improvviso di fronte ed allora si ritirò tutta la notte in stanza a lavorarci. Più facile invece che sia stato realizzato a Parigi nel laboratorio di Batignolles nel quale ce lo mostrano due fotografie: nella prima, in cui lo ritrae di profilo, Medardo sembra davvero aver fermato l’attimo in cui si è detto che avesse visto il ragazzino correre nella luce di una porta, quasi come per il momento fissato da Bernini nell’Apollo e Dafne di Villa borghese a Roma; nella seconda sono inquietanti le lime, simili a pugnali, appese sullo sfondo.
In quest’opera che, forse, più di altre va guardata da lontano, non è l’artista ma il ragazzo che sembra essere più sorpreso, quasi perplesso e con l’atteggiamento di chi sembra chiedere qualcosa.
È esposta in cera al Salon d’Automne nel 1906 con diversi titoli: Impression d’enfant e Portrait d’Emile Mond, confondendo il nome del padre con quello del figlio. Il nuovo titolo Ecce puer compare nel 1909 in una lettera di Medardo ad Ardengo Soffici (scrittore saggista poeta e pittore) e nelle pubblicazioni successive al 1911.
Ecce puer, la cui prima fusione fu persa, è l’ultima opera di Medardo Rosso. Dopo di essa lavorò solo a rielaborazioni e nuove fusioni di precedenti soggetti. Forse per questa ragione fu scelta per la sepoltura dell’artista al cimitero Monumentale di Milano, accompagnata dall’epigrafe: Fine di una vita principio di un’arte.
Medardo Rosso muore nel 1928 per le conseguenze di ferite causate dalla caduta su un piede di pesanti lastre nello studio di Milano. Ultimo paradossale incidente di altri occorsigli in vita come la caduta da un tram durante un soggiorno a Vienna ed il grave incidente d’auto a Hendaye-Plage in Francia (Aquitania) al confine con la Spagna sull’Atlantico.
L’ultima opera in mostra è Madame Noblet, nelle versioni in gesso (Roma, GAM), dalla base più ampia, ed in bronzo (Milano, GAM - foto a lato). Lo stesso Medardo la data al 1897. Innaturale, potente, senza collo né base, del modello non ha abiti e stoffe, non dettagli e, viene da pensare, nemmeno il carattere della all’epoca 48enne Anne Lostau (1849-1922), moglie del medico e collezionista parigino Louis Sylvain Noblet che Medardo, in una lettera a Rodin del 1896, indica come suo cliente.
Monumentale come una montagna dall’apparenza tozza, la fusione sembra una lenta colata di piombo, pesante come antichissime rocce basaltiche. Il volume è appena intaccato dalle asperità della superficie dove la sicurezza del gesto modella piani frastagliati e lascia in vista i segni della spatola e delle dita. È come materia ancora morbida appena sbozzata nella sua potente larghezza, schiacciata a terra, dalla quale affiorano solo l’occhio sinistro, il naso piegato verso destra e la bocca chiusa.
È bello vederla fotografata nello studio di Boulevard des Batignolles nel quale è stata realizzata. Studio che, con gli attrezzi del mestiere appesi in bell’ordine alla parete alle sue spalle, è simile ad una sala operatoria di chirurgia ortopedica ed in singolare contrasto con le atmosfere rarefatte della mostra.
Esposta in diverse mostre, il figlio Francesco la dona alla GAM di Milano nel 1953. Ed è bello che Milano dedichi a Medardo questa bella mostra proprio nell’anno di EXPO 2015: quasi a risarcimento dell’esclusione dall’EXPO 1904 di Parigi patita a motivo delle sue origini italiane!
Le ultime due opere che, infine, ancora segnaliamo come appendice si trovano, come le altre citate in precedenza, nelle collezioni permanenti della GAM di Milano al piano superiore.
Sono due cere su gesso: rossa per il Bambino alle cucine economiche(titolata anche Bambino all’asilo dei poveri) e bianca per la fuggevole impressione dell’improvvisa apparizione in una via parigina della misteriosa Femme à la voilette (foto a lato - anch'essa in altra copia anche a Brera) inutilmente rincorsa ed immediatamente inghiottita dalla folla dei passanti. Chissà che non sia possibile incontrarla nella penombra serale aggirandosi per le più occulte vie di Milano una volta varcato in uscita l’arco della GAM su via Palestro.
Meglio tenere gli occhi aperti.
Giovanni Guzzi, aprile 2015
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