domenica 1 settembre 2013

Galleria d'arte: Cartoline da Los Angeles

Cartoline da Los Angeles, la città lontana all'arte
Attraverso una serie di mostre e opere site specific, è possibile tratteggiare l'immagine abbacinante di una metropoli che non solo ha “dispersione” come parola chiave, ma anche una particolarissima identità? Una serie di mostre fatte di luce, di una “mansuetudine” europea, e un'indagine sui veri monumenti di Los Angeles possono riannodare i fili tra l'arte e un percorso teorico sull'urbanità? Ecco una breve ipotesi [di Matteo Bergamini]
pubblicato domenica 1 settembre 2013

Chris Burden, Urban Light, 2006, LACMA

È affascinante scoprire come l'arte talvolta possa intrecciare i propri fili con l'esterno, fuori dai musei, in una maniera precisissima: attraverso pochi segni in grado di comporre un paesaggio. Certo, parliamo di opere site specific, ma non solo. Siamo a Los Angeles, incredibile agglomerato sulla cui vita si sono confronti filosofi e architetti, come Jean-Luc Nancy, Rem Koolhaas e Jean Baudrillard, solo per citarne alcuni. Immortalata da Hockney piuttosto che Mike Kelley, l'aspetto è quello di una dimensione in grado di distorcere pensieri e percezioni: da un lato la "bigness”, l'incapacità di abbracciare, anche solo con lo sguardo, un luogo che tradisce distanze, temperature, punti cardinali; dall'altro c'è la possibilità di scoprire come in pochi metri quadrati possa nascondersi l'essenza di un luogo. Il perimetro del LACMA è uno di questi indicatori, e le due icone senza appello - per il loro essere stigmatizzazioni precisissime di un'identità vertiginosa - sonoUrban Light di Chris Burden, la "Cattedrale” di luce realizzata all'ingresso del complesso museale di Wilshire Boulevard, attraverso l'utilizzo di 200 lampioni presi da diverse città americane, e messi in scala a formare proprio il contorno di un edificio di culto cristiano, insieme all'immensa roccia Levitated Mass di Michael Heizer, 340 tonnellate di granito proveniente dal deserto di Riverside, sospesa nel cortile del museo nel giugno del 2012, per un costo di 10 milioni di dollari. 

James Turrel, Raemar Pink White, 1969 Shallow space, Collection of Art & Research, Las Vegas Copyright: James Turrel Photo by Robert Wedemeyer, courtesy Kayne Griffin Corcoran, Los Angeles

Due opere-ritratto, che meglio identificano l'aderenza di Los Angeles con il suo territorio, la sua natura di giardino sterminato e antropizzato. Ma c'è un altro corpus di opere al LACMA, realizzate da uno dei più grandi artisti americani viventi: James Turrell. La luce è un'altra tipicità losangelina, e le sedici stanze dell'artista dell'Arizona fanno da viatico per guardare al ritmo solare della città, per perdersi in rovesciamenti repentini di cromie. Proprio come fa il sole, fuori. Non è un caso che Turrell sia in qualche modo anche il "pittore del cielo”, l'unico artista dopo il Rinascimento ad essere stato in grado di "ingabbiare” la luce, attraverso quegli spettacolari ambienti realizzati al Guggenheim di New York, dove è in corso un'altra parte della consacrazione, fino a Houston, in Texas, o a Villa Panza a Varese e all'Herny Art Museum di Seattle. 
Rispetto alla vasta ellisse ambientale realizzata nella mostra della Grande Mela, però forse la mostra al LACMA potrebbe apparire più "didascalica”; in fondo si tratta di 16 ambienti circoscritti, ma è anche vero che la dimensione più "umana” dà la possibilità di perdersi nelle stanze di Breathing Light o di Raemar Pink White, realizzato per la prima volta nel 1969. L'esperienza è quasi mistica, l'inganno perdonato. Ma è come se qualcosa mancasse; il cielo è fuori, e al LACMA la mostra sembra forse più europea, nell'accezione "chiusa” che ne dava Baudrillard in "America”. 

Installation view of URS FISCHER at MOCA Grand Avenue and The Geffen Contemporary at MOCA, April 21 – August 19, 2013, photo by Stefan Altenburger, © Urs Fischer, Courtesy of the artist and The Museum of Contemporary Art, Los Angeles

La mostra di Urs Fischer al MOCA (in crisi), è stata un'altra mostra "chiusa”, ma splendida. Una retrospettiva dove si trovavano radunati i "best of” dell'artista svizzero, promosso in Italia anche dalla Fondazione Trussardi e, l'anno scorso, a Palazzo Grassi. Ma oltre ad un bellissimo accostamento tra le "gocce” di Horses Dream of Horses con la Bread House firmata nel 2004-05, alle prospettive "solide” degli oggetti stampati su volumi specchianti secondo il metodo delle proiezioni ortogonali, fino alla scultura aerea Untitled (Suspended Line of Fruit), la parte più impressionante era negli spazi del Geffen Contemporary at MOCA, a Little Tokyo, dove disposti in una modalità labirintica erano installate migliaia di sculture di terra cruda realizzate da 1500 volontari, a rappresentare tutto lo scibile dell'immaginario umano e metropolitano: gatti e pentolame, draghi, vasi, ritratti, colonne antiche, personaggi dei fumetti e palme, pesci e Cristi. Un'operazione che ha richiesto qualcosa come 308 tonnellate di argilla, consegnata in oltre 12mila sacchi, modellata dai losangelini la settimana precedente l'opening della mostra. Un parterre per la scultura monumentale Untitled (2011), di Fischer, ispirata al Ratto delle Sabine di Giambologna. Sottoposta ad un processo di fusione attraverso la combustione controllata di stoppini inseriti in posizioni strategiche nell'opera, la scultura è un rovesciamento del monumentale nell'effimero. Un'illusione di eternità, così come illusori e bidimensionali sono i volumi degli oggetti presenti nello studio dell'artista newyorkese Josh Smith, a sua volta appiccicati al muro negli spazi del Geffen, a costituire un secondo inganno di Fischer.

 Installation view of URS FISCHER at MOCA Grand Avenue and The Geffen Contemporary at MOCA, April 21 – August 19, 2013, photo by Stefan Altenburger, © Urs Fischer, Courtesy of the artist and The Museum of Contemporary Art, Los Angeles Installation view of URS FISCHER at MOCA Grand Avenue and The Geffen Contemporary at MOCA, April 21 – August 19, 2013, photo by Stefan Altenburger, © Urs Fischer, Courtesy of the artist and The Museum of Contemporary Art, Los Angeles

Qui forse Los Angeles è lontana, un po' come se il sapore relazionale fosse stato ampiamente assimilato, nonostante il suo essere grandioso. Ma torna presto come un fulmine l'idea di uno spazio identitario, al Getty Center. Qui, oltre alla mostra "Japan's Modern Divide”, che mette a confronto le immagini di Hiroshi Hamaya e Kensuke Yamamoto, oltre agli arredi francesi del '700, trasportati a migliaia di chilometri, dove «i quadri antichi appaiono come nuovi, brillanti e ossigenati, ripuliti da ogni patina e da ogni screpolatura , in una lucentezza artificiale che ben si accorda con lo stile "Pompeian Fake” che li circonda», (lo scriveva impietosamente sempre Baudrillard), la vera sorpresa, che ci riporta a riannodare i fili dell'arte con la sua città dissolta e paradossalmente compatta come forse nessun'altro luogo al mondo, è una mostra di Ed Ruscha, il losangelino per antonomasia, nonostante la giovinezza trascorsa ad Oklahoma City.

Ed Ruscha, da -Some Los Angeles Apartments- 6565 fountain ave, Los Angeles CA 90028

In una piccola ma deliziosa mostra sono "srotolati” alle pareti tutti gli scatti che compongono tre dei vari volumi che resero celebre Ruscha a partire dalla metà degli anni '60, e che compongono una vera passeggiata antropologica: Some Los Angeles Apartments (1965), Every Building on the Sunset Strip (1966) eTwentysix Gasoline Stations, volume pubblicato nel 1963, che ripercorre con i veri monumenti di queste miglia quadrate di mondo, il tema di un viaggio iniziatico, dopo l'avvento della Beat generation (che pochi anni prima imperversava 600 chilometri a nord, a San Francisco) e prima del postmoderno. Qui sono raffigurate, appunto, 26 stazioni di rifornimento, incrociate sul tragitto Oklahoma City-Los Angeles, percorso in auto fatto dall'artista già a partire dai tempi del college, quando alcune volte l'anno tornava a trovare i genitori. «Ed Ruscha's art strikes a balance between the banal and the beautiful that encapsulates the Los Angeles experience», scrive Virginia Heckert nel catalogo che riassume il progetto di Some Los Angeles Apartments. Ma sono parole che si possono intercambiare, in quella che è una sintassi perfetta dei segni che compongono quella "città lontana” di cui anche Nancy rifiutava l'appellativo di "non città”, e che Koolhaas ha inserito tra gli esempi lampanti della "Bigness” nel suo "Junkspace”. Eppure la Los Angeles che tratteggia Ed Ruscha con gli edifici di Sunset Stip e gli esempi più calzanti di abitazioni "in stile”, dai condomini del Park La Brea ai residence e ai condomini di West Hollywood, compongono l'affascinante identità di un universo da sempre allucinatorio, sorvegliato, silenzioso, inquietantemente "spopolato” e dentro il quale è forse ancora possibile immaginare una deriva, o un colpo di sole. Ci si orienta forse più verso un finale nero, che non sull'happy ending. Ma quale città è sempre stata clemente nei confronti dei suoi artisti?

Nessun commento:

Posta un commento