De Dominicis, l'antico moderno che rappresentava pensieri
La sua opera non è fatta di descrizioni o racconti ma di idee e dialoghi con l'invisibile. Nessuno fu più grande di lui nel nostro Novecento
La sua opera non è fatta di descrizioni o racconti ma di idee e dialoghi con l'invisibile. Nessuno fu più grande di lui nel nostro Novecento
Di pochi artisti del Novecento l'esperienza è così assoluta da fartene sentire la statura come quella dei grandi maestri del passato. L'arte contemporanea è molto stimolante ma infinitamente frammentata.
E la dimensione umana, dolente, ne sembra limitare la grandezza.Piero della Francesca, Michelangelo, Leonardo, Raffaello, Caravaggio, sono valori assoluti e incommensurabili, ai quali nel Novecento si avvicina soltanto Picasso, così versatile e multiforme. In Italia, dove il più grande pittore del Novecento è un casalingo, Giorgio Morandi, per il quale il mondo si restringe in una stanza, è difficile indicare maestri come gli antichi, in una dimensione mitica e inattingibile. Forse Amedeo Modigliani, certamente Scipione, a metà secolo Lucio Fontana. Inizia poi una stagione di piccoli uomini che hanno dell'arte una visione impiegatizia, anche se con testimonianze di assoluta spiritualità. Penso, in particolare, proprio a Giorgio Morandi, che vive la propria popolarità in un eremo, non raggiunto dai rumori del mondo che non superano la soglia della sua pittura.Agli antipodi di Morandi, e non in epoca dannunziana, si pone l'esperienza di un grande isolato, fuori da ogni scuola e regola: Gino De Dominicis (1947-98), il quale avverte la necessità di coltivare una vita d'artista. Distaccandosi incommensurabilmente dagli artisti del suo tempo.
Se si esclude l'esperienza totalizzante di Joseph Beuys, nessun artista in Europa, tra gli anni Settanta e gli anni Novanta, ha avuto la potenza e la visione universale di De Dominicis, con la prerogativa, ancora più radicale, di essere estraneo a ogni ideologia, e lontanissimo da ogni posizione politicamente corretta.Negli anni della sua attività, si erano appena affermate o stavano per affermarsi le due tendenze più influenti dell'arte italiana nella seconda metà del secolo: l'Arte Povera e la Transavanguardia.Sono gli anni della solitaria e folgorante apparizione di Gino De Dominicis. Che sembra però vivere altrove, non intrattenendo rapporti né relazioni con nessuno di loro, come se appartenesse a un'altra dimensione. E non per presunzione, vanità, contrasti ideologici, diversità estetiche, ma per una diversa natura. De Dominicis si misurava con l'assoluto, con l'eternità, sentendosi contemporaneo dei sumeri piuttosto che dei pittori della prima o della seconda Scuola romana, di Schifano o di Cucchi, che pure rispettava.Oggi lo si può intendere dalle sue opere, ma era evidente nel conoscerlo. Più vicino a Oscar Wilde e a D'Annunzio o, agli anni suoi, a Carmelo Bene, De Dominicis non illustrava, non raccontava, non si applicava alla cronaca o non si implicava nel compatimento di se stesso o nella rappresentazione di un uomo in crisi o in rivolta. Nessuna traccia, nella sua opera, della lezione degli artisti più grandi del suo tempo, oltre a Picasso, Bacon, Pollock, Giacometti, Rothko, Lucian Freud, per non parlare dei maestri della Pop Art, non so se ammirati.Il tempo di De Dominicis era un altro. Egli si confrontava con pensieri più alti. Si possono immaginare di un artista nature morte, ritratti, paesaggi, e naturalmente opere astratte. De Dominicis rappresentava pensieri; e qualcuno, per questo, l'avrà scambiato per un artista concettuale. È stato, in realtà, un artista filosofo, un uomo di pensiero, senza cedimenti e concessioni al racconto, all'illustrazione, alla descrizione. E, per esempio, misurandosi con Dio, egli è l'unico pittore moderno che è ritornato al fondo oro. Letteralmente. E senza rimpianti o nostalgie. Senza recuperi o citazioni archeologiche. L'oro di De Dominicis, come il nero, sono inevitabili e attuali, come strumenti per rispecchiare la presenza di Dio. Per De Dominicis l'arte è Gesamtkunstwerk, «opera d'arte totale», e implica, inevitabilmente, anche la vita.Un altro contemporaneo di De Dominicis, Luigi Ontani, ha praticato questa strada, ma piuttosto in una dimensione teatrale, mettendosi in scena, recitando la sua condizione di artista, con grande raffinatezza ma lontano dalla vita.De Dominicis è forse l'unico artista del nostro tempo che s'identifica, invece, con l'arte, come interpretazioni del mondo; e con una tensione eroica e titanica, da cui è esclusa ogni declinazione dandy, che pure resta una tentazione.
Palazzi, case, alberghi, automobili, nella vita d'artista, a suo modo inimitabile, lo suggeriscono. Ma resta, dopo il silenzio della morte, l'opera, inconfrontabile e lontana da quella di ogni altro artista, e così assoluta e definitiva da potersi misurare, nel Novecento, soltanto con quella del primo De Chirico e di Fontana. Pensieri, idee, dialoghi con l'invisibile. Mai descrizioni, mai racconti. Un sistema di pensiero radicato nella Storia, con l'epopea dei Sumeri e di Gilgamesh, Signore della città di Uruk. E anche Urvasi, la divinità indiana della bellezza. L'arte è mistero sondato, e il pittore è come un mago. Compito dell'arte non è comunicare, ma creare, rivelare il mistero, penetrare l'essenza delle cose.Con grande acutezza De Dominicis scriveva: «Oggi, tra i tanti rovesciamenti, si perpetua anche nell'arte una percezione del tempo rovesciata; l'arte e gli artisti contemporanei si considerano e sono considerati moderni, mentre, venendo dopo tutto ciò che li precede, dovrebbero sapere di essere più antichi». Così può concludere: «Io sono sicuramente più antico di un artista egiziano». E non sono battute, paradossi, ma riflessioni sul compito e il destino dell'artista, indipendentemente dal suo tempo.De Dominicis è solo in questo percorso, in questo vero e proprio «viaggio al termine della notte», ed ha usato l'unico modo perché la sua vita non finisca, come continua a ricordarci il silenzioso mistero della sua morte. Nessuna malattia, nessun presagio, nessun annuncio: un'improvvisa sparizione. Come quella di Majorana, ma senza gialli, e persino senza traumi. Il passaggio tra una vita e un'altra, in quella notte di novembre 1998, a Roma, in piazza San Pantaleo, dove abitava, poco lontano da casa mia in via dell'Anima.Non siamo ancora certi che sia morto, e certamente non è morto. Non ha lasciato eredità o reliquie, ma una summa di pensieri, calati in opere misteriose. Difficile datarle o sentirle datate. Sono senza tempo: «L'arte riguarda il genio, e il suo spazio è quello della verticalità: non si muove orizzontalmente da destra o sinistra, o viceversa, ma si sposta, immobile, dall'alto verso l'alto».
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