pubblicato lunedì 5 settembre 2016
Ci sono giorni in cui la canicola romana, anche in estate inoltrata, non perdona. Incontriamo Daniel Buren proprio in uno di quei giorni, a mezzogiorno, su un Palatino polveroso e assolato che pare più il set di un western surreale che un’area archeologica. Per fortuna ci offre ombra e refrigerio la straordinaria Aula Isiaca, dove affreschi a grottesche di epoca rinascimentale convivono con il loro modello romano, offrendoci la meraviglia di un dialogo tra varie epoche storico-artistiche.
Qualcosa di simile è successo sul Palatino, in questi mesi, con la mostra "Par Tibi, Roma, Nihil” – curata da Raffaella Frascarelli, e possibile grazie alla sinergia tra la Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’area archeologica centrale di Roma, la Fondazione Romaeuropa Arte e Cultura, e la Nomas Foundation – in cui fino al 18 settembre si potranno vedere opere d’arte contemporanea innestate nel contesto archeologico, con alcune aree in molti casi aperte o riaperte al pubblico per l’occasione.
Buren ha contribuito con La scacchiera arcobaleno ondeggiante, una monumentale installazione di bandiere colorate che i romani possono ammirare ergersi sulla terrazza della Domus Severiana.
Provato dal caldo, stanco, ma senza mai perdere la vivacità dello sguardo, scivola in una Wassily dall’aria non troppo comoda e chiede dei fazzoletti per detergersi la fronte imperlata di sudore. Pronti.
Non è la prima volta che lavora in Italia, si possono trovare suoi lavori disseminati per il nostro Paese (Fattoria di Celle, Castello di Ama, Parco di Scolacium, Colle Val D’Elsa, Napoli, e altri). Si ricorda in che occasione venne per la prima volta? Le piace lavorare nel nostro Paese?
«Certo che mi piace, altrimenti sarei masochista! La prima volta fu molto tempo fa, nel ‘68, era stata la mia prima mostra personale in una galleria, alla Galleria Apollinaire a Milano, era la prima esposizione, e poi ha chiuso. E dopo ho fatto 300 circa mostre – non le ho mai contate veramente – personali e anche collettive. Faccio esposizioni in Italia come in altri Paesi perché sono invitato. Quindi, il fatto che sia invitato - e in circa cinquant’anni sono stato invitato tantissime volte, più qui, in Italia, piuttosto che in Germania o negli Stati Uniti -è dovuto più alle persone che mi invitano piuttosto che a una mia scelta o volere. Ma in Italia mi sono sentito sempre a mio agio e per questo tutte le volte che vengo invitato qui lavoro con molto piacere».
Come si trova a lavorare nel contesto culturale italiano, rispetto a quello di altri Paesi?
«Come in tutti i Paesi che hanno molta cultura, qui il contesto è sempre molto ricco, sia nelle grandi città sia nei piccoli villaggi, per esempio non è la stessa cosa negli Stati Uniti, dove si lavora nei campus oppure in deserti intellettuali. In Italia, anche se a volte si lavora con persone molto semplici, che vengono dalla campagna, queste hanno sempre una base di cultura, hanno una conoscenza generale del posto dove vivono. Sono sempre stato molto sorpreso da questo, conosco meglio Napoli perché vado spesso a Napoli, e puoi prendere chiunque, anche il tassista, e ti parlerà della sua città, dicendo "qua c’è questo, questo è qui dal tempo della Spagna”. E quindi, senza che tu chieda niente, loro ti dicono la storia della città. E per esempio non troverete la stessa cosa a Parigi o a Roma, anche se sono città molto colte, piene di cultura».
Le bandiere appartengono al suo bagaglio segnico, le ha già usate a Montreal come a Poggibonsi. Come mai ha deciso di utilizzarle anche per questa installazione?
«Le bandiere le utilizzo fin dagli inizi, già nel 1968-69, è un mezzo che amo molto, che gioca con il sole, con la pioggia, con il vento. Ho creato circa 100 lavori basati sulle bandiere, che sono tutti diversi gli uni dagli altri: qui è speciale per molte ragioni, il luogo è unico, la posizione è magnifica, rispetto al sole e al vento, ed anche per quanto riguarda la vista, sia da vicino sia da lontano, sulla città, e quindi ha molti aspetti interessanti soprattutto quando si tratta di bandiere che sono sempre anche dei simboli, e che hanno anche questa possibilità di essere viste da lontano, e qui c’è un gioco col numero di bandiere che creano una immagine unica».
Dunque queste bandiere hanno solo un valore estetico? Nessuna lettura socio-politica?
«È molto difficile rispondere per me si tratta di aspetti sempre legati. Ci sono persone che possono vederci una cosa piuttosto che un’altra, anche se non sono d’accordo e poi non mi preoccupo di spiegare troppo perché un lavoro è fatto così, è dato al pubblico e basta. E una volta che tu lo doni le persone possono vederci quello che gli può piacere, possono vedere la parte giusta del lavoro, ma lo possono vedere come vogliono. La cosa interessante della bandiera, anche se non guardiamo il suo simbolo politico o nazionalistico, consiste nel fatto che si mostra agli altri, e questo è stato sempre un luogo di convergenza, negli eserciti, nelle guerre, da quando esistono, da sempre. Quindi, le bandiere sono assolutamente simboliche, soprattutto quelle nazionali, ma hanno anche un significato e vogliono dire molte cose rispetto al luogo in cui si trovano, e secondo come giochiamo con questa significazione danno un senso che non è mai lo stesso. Se mescolo per esempio, come ho fatto molti anni fa, una o due bandiere delle mie in mezzo a 100 bandiere che vengono da tutti i Paesi del mondo, prima di tutto è come un gioco, perché poche persone noteranno che c’è una bandiera che non è la bandiera di un Paese, e dopo si rendono conto che questa bandiera è all’interno di un gruppo di bandiere nazionaliste, e questo fa sì che le persone si pongano delle domande rispetto alle identità nazionali e si chiedano perché quella bandiera è lì».
C’è questo significato anche qui, al Palatino?
«Qui il senso è molto diverso, per esempio vediamo subito che non ci sono bandiere nazionali, né italiana, né giapponese, né di nessun altro Paese. Anche se c’è l’utilizzo delle qualità materiali della bandiera: il vento, il sole, il fatto che si vedono da lontano».
Ha scelto lei il luogo?
«No, mi hanno proposto di utilizzare quell’area del Palatino. Comunque, è quello più giusto dove mettere delle bandiere, anche secondo me».
Il Palatino in questi mesi è diventato una sorta di piedistallo per mostrare opere di artisti contemporanei. Quali sono le difficoltà per l’arte contemporanea nel rapportarsi con una realtà così carica di storia e stratificazioni culturali come quella romana?
«Penso che in una città come Roma bisogna cercare molto a lungo per trovare un luogo dove non ci sia storia: se sono vicini, o dentro Roma, sono sempre dei luoghi profondamente storici. E questo è il primo punto. Il secondo punto è che proprio per questo, scegliere questo luogo significa che non si vuole proprio scappare da questa storia, che è veramente qui, dappertutto, nella città in qualsiasi luogo. E questa area so che era chiusa al pubblico da più di 30 anni, grazie a chi l’ha organizzata tutte le persone interessate possono vedere questo luogo, molti lo vedono per la prima volta, anche se abbiamo l’impressione che tutti a Roma lo conoscano, in realtà questo luogo è sconosciuto. E allo stesso tempo mentre scoprono questo luogo storico possono scoprire delle proposte artistiche di oggi, che si mescolano con queste pietre antiche, e queste pietre storiche rendono il luogo meno univoco, ma anche se rimane molto storico, viene utilizzato per delle cose che non hanno nulla a che vedere, dal mio punto di vista, con la storia vera».
A quali progetti sta lavorando?
«Lavoro sempre con una decina di progetti allo stesso tempo, tutti molto diversi, e molto lunghi da fare – credo che entro ottobre finirò un lavoro che ho cominciato a novembre dell’anno scorso – nella Metro di Londra, e poi ho altre esposizioni da preparare in Corea, in Cina, in Giappone, negli Stati Uniti. Per me è normale, faccio circa tre mostre al mese da circa 55 anni!»
Mario Finazzi
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