pubblicato venerdì 4 marzo 2016
Al numero 12 di via Pontaccio a Milano, in piena zona Brera, si entra nel bellissimo Palazzo Crivelli. Un po' è merito della splendida architettura, di un giardino interno da far invidia, e un po' perché è la sede di una storica casa d'aste: Il Ponte, nata 40 anni fa. Se avrete la fortuna, come è successo a noi in questa occasione, di potervi aggirare tra i suoi locali, tra quadri, sculture, arredi, complementi e operai al lavoro per preparare i set dei prossimi incanti, capirete il perché di tale entusiasmo.
Fondata nel 1974 da Stefano Redaelli, da qualche stagione questa realtà milanese sta vivendo una bella rivoluzione interna, e il merito è di Freddy Battino, alla testa del Dipartimento di Arte Moderna e Contemporanea, chiamato qui quattro anni fa per risollevare una sezione quasi inesistente, in ombra rispetto al commercio di arte dell'Ottocento, antiquariato, gioielli, orologi e così via.
Abbiamo chiacchierato a lungo, per avvicinarci un po' e capire non solo come si possa ridare smalto a un'impresa di questo genere, un po' d'antan. Ma anche come il commercio possa – in un certo senso – permettere lo sviluppo di cultura.
Andiamo dritti al punto: perché è approdato al Ponte?
«Mi hanno chiesto di dirigere un dipartimento trascurato. Il settore del Moderno e Contemporaneo, fino a poco tempo fa, lavorava in maniera casuale con prodotti derivati da eredità, soprattutto. Le aste erano composte da cataloghi misti, in una dimensione un po' antica. Mancava una struttura, insomma. Oggi va poco e andrà sempre meno, il Novecento italiano. I collezionisti vogliono case moderne: il dipinto di De Chirico, Rosai o Sironi con la cornice dorata è roba da vecchi».
Perché, secondo lei, questo cambiamento del gusto?
«Perché gli appassionati d'arte oggi guardano moltissimo ai musei, ai "white cube”, al web, alle fiere, e anche alle riviste di decorazioni di interni: questi sono i canali per la trasmissione del gusto. Niente tappeti, niente argento, niente cornici. Chi cerca arte contemporanea cerca una "sintonia” con questo universo. Vanno forte gli artisti poco disturbanti o con una figurazione minima, vicina agli specchi di Pistoletto se vogliamo, fatta eccezione per nomi molto blasonati o modaioli, tipo Boetti, di cui si vende anche il colore».
Come si restaura un dipartimento che si può dire in crisi?
«Ho semplicemente cercato di portare il mio bagaglio culturale».
Qual è il suo percorso?
«Inizio a 15 anni facendo il trovarobe, per conto di gallerie e commercianti. Con i primi soldi vado a Londra, alle aste. Siamo negli anni '70, un'epoca dove a Londra non andava nessuno, specialmente per queste ragioni. Conoscevo l'inglese e il francese quindi riuscivo a muovermi piuttosto bene, e mi informavo su come andavano gli artisti italiani all'estero. Poi ho incontrato Luca Palazzoli della galleria Blu di Milano e per anni, con lui, ho lavorato come consulente e organizzatore di mostre. Alla fine ne ho fatte più di 100, muovendomi anche attraverso tutto quello che è l'aspetto fiscale, di prestiti, trasporti, e anche montaggio. L'amore per l'arte non può prescindere né dal rispetto, né dalle implicazioni e i rischi e i pericoli legati a questo mondo. Dall'89 ho iniziato a fare per Sotheby's le aste di Moderno in Italia e infine eccomi qui. Anche se all'inizio, per snobismo, non volevo accettare».
E invece?
«La proposta è stata la carta bianca, così ho detto sì, cercando di trasformare la casa in una galleria d'arte, per quanto riguarda il mio dipartimento».
Che cosa intende?
«Ho sempre lavorato come gallerista, scegliendo artisti, facendo mostre con un nesso logico. E ho messo in piedi anche esposizioni di personalità storicizzate, ma non valutate come si sarebbe dovuto. Qui cerco di fare la stessa cosa. Sono l'unico a fare queste proposte/provocazioni, ovvero sono l'unico a presentare all'interno di un'asta un nucleo di opere di artisti conclamati ma dimenticati dal mercato, cercando di muovere una reazione a tutti i livelli, sia economico, sia culturale».
Quindi le mostre-aste sono diverse dall'esposizione pre-asta?
«Esatto, ma tutto funziona molto bene. Se un artista dimenticato fa 12 record storici come recentemente è stato, senz'altro è merito di questo approccio e della nostra cura».
E come funziona?
«Bisogna partire dal basso. Dalla comunicazione, dall'allestimento, della promozione insomma. E poi bisogna essere trasparenti. Ho fatto una mostra personale di Paolo Icaro, oggi venduto da fior di gallerie, mettendo tutti i prezzi in chiaro. Il mercato, nel caso delle aste, è più limpido e la gente può vedere quali sono i valori reali di alcuni artisti, da Verna a Baruchello, giusto per citare un altro paio di nomi tornati alla ribalta. Partire da prezzi molto bassi, per noi, è come schiacciare una molla».
Quali sono gli oggetti che raccogliete di più?
«Sicuramente quelle che arrivano da sgomberi e simili, e che battiamo in via Pitteri in cataloghi che contano anche 3mila lotti. Anche in questo caso però possono trovarsi ottime cose; recentemente, in una visione, ho scoperto una stampa di Jesus Raphael Soto che si stava quasi per buttare via. È finita sul mercato mondiale».
Da quali Paesi vengono a comprare al Ponte?
«Una ventina di Paesi hanno partecipato all'ultima asta, dal Libano all'Ucraina all'Australia. È estremamente importate conoscere tutti i mercati, per consigliare anche a chi viene qui come muoversi. Il mio ruolo, come ho detto, è anche un po' quello di gallerista e consulente: spesso dico ai collezionisti che cosa vendere e cosa tenere».
Prossime figure da "riscoprire”?
«La prossima asta (14 giugno 2016, nella sede di Palazzo Crivelli) sarà dedicata all'Astrattismo Italiano e in particolare alla figura di Mauro Reggiani, anche per fare giustizia storica. Questo approccio, poi, giustifica anche un po' una forma narcisistica di onnipotenza personale: mi piace far decollare pezzi che vanno controcorrente rispetto alla massa delle offerte».
Un metodo critico, direi
«Esattamente, è fondamentale».
Ed è un buon modo per far crescere un'istituzione come una casa d'aste?
«Certo, perché va bene parlare di record di Bonalumi, Scheggi, Boetti, ma poi alla fine si tratta di questioni di puro ordine economico: gestire un'attività è affare decisamente diverso. Io sono una sorta di "operaio del lusso”: bisogna riconoscere i quadri autentici dai falsi, e serve grande allenamento, ma serve anche saper montare una mostra all'atto pratico».
Chi è il collezionista tipo de "Il Ponte” che viene a comprare moderno e contemporaneo?
«Sulla base del lavoro che sto facendo, il collezionista del Ponte dire che è un tipo appassionato e passionale, attento e intelligente, poco speculativo e che pensa a medio e lungo termine quando si tratta di investire. Tanti condividono le mie scommesse sui miei artisti "riproposti”. Per quanto riguarda le opere più speculate di artisti come Bonalumi, Scheggi, Fontana, interviene più un pubblico composto in maggioranza da commercianti, come avviene nelle grandi case d'asta, che hanno cataloghi da 30 artisti: noi, nell'ultimo incanto, avevamo oltre 100 nomi».
Come è la risposta dei nuovi mercati?
«Ottima. Anche perché impariamo a conoscerli ogni giorno un po' di più, e riusciamo a fare un ottimo lavoro con le nostre proposte. C'è gente che si stupisce quando dico "Non mi interessa per l'asta”. E si stupisce perché, nonostante l'offerta, non vogliamo una dimensione da supermercato. Ci deve essere alta qualità, coerenza, specialmente all'interno del catalogo».
Prima delle aste fate sempre esposizione?
«Si, e oltre alla grande cura deve portare un po' di cultura. Gli sforzi sono pazzeschi, ma alla fine è premiante».
Allora parliamo di soldi: qual è il fatturato annuale del Ponte?
«Il settore di Arte Moderna e Contemporanea è in testa a tutte le classifiche: abbiamo venduto il 95 per cento. Su 20 milioni di fatturato, quasi 9 milioni sono stati fatti con sole due aste di Moderno».
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lunedì 7 marzo 2016
COME UNA GALLERIA: CASA D'Asta
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