L'intervista/Milton Gendel
Milton Gendel è un personaggio leggendario: scrittore, giornalista, amico di figure altrettanto leggendarie come Breton e Peggy Guggenheim, artisti come Dalì, de Kooning, Burri, che introduce negli States, e Scialoja, teste coronate come Lady Diana e Elisabetta II. Ma soprattutto fotografo di un mondo in via d’estinzione, che va dalla Sicilia degli anni Cinquanta a Taiwan, passando per New York e la dolce vita romana [di Manuela De Leonardis]
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Il salottino con tre finestre è il primo ambiente che s’incontra oltre il portone al piano nobile di Palazzo Primoli, proprio di fronte alla Biblioteca della Fondazione omonima. È qui che dal 2011 si trova lo studio che Milton Gendel (New York City 1918) ha in comodato d’uso a vita, dopo lo sfratto da Palazzo Doria Pamphilj. Cimeli sette/ottocenteschi del padrone di casa, il Conte Giuseppe Primoli, nipote di Napoleone III, si confondono con gli oggetti che il critico d’arte e fotografo ha collezionato nel tempo. Tutt’intorno dipinti d’epoca, libri dal dorso di pergamena scura, la collezione di bastoni da passeggio e parecchi soprammobili che raffigurano animali: gatti, cani, lucertole, tori, elefanti… "Ci piacciono gli animali", afferma Gendel.
In bellavista anche la prima edizione del romanzo di Evelyn Wagh, Unconditional Surrender (Chapman and Hall, London 1961): lo scrittore inglese è con Lady Diana Cooper e Georgina Masson nella fotografia scattata da Milton Gendel nel ’63, nel giardino di villa Doria Pamphilj. Brillante e ironico, Gendel porta con disinvoltura i suoi novantaquattro anni. Parlando del digitale mostra il suo entusiasmo per la tecnologia e alla domanda se fotografa ancora, dopo aver risposto "Perché no?", tira fuori la sua macchina digitale e, guardando nel mirino, racconta il nostro incontro dal suo punto di vista. All’intervista partecipano anche Barbara Drudi, curatrice con Patrizia Rosazza Ferraris della mostra Visitors book.Ospiti a casa Praz. Ritratti fotografici di Milton Gendel al Museo Praz di Roma (fino al 24 marzo 2013) e l’artista Jack Sal. Sul tavolo rotondo una pila di Art News e un paio di copie del catalogo Milton Gendel. Una vita surreale.
Partiamo da Mario Praz di cui hai scattato anche l’ultimo ritratto - il 17 febbraio 1982 - prima della sua morte. Il tuo nome compare più volte nel Visitors’ Book di Casa Praz, anche in occasioni particolarmente mondane come la visita di Margaret d’Inghilterra nel 1973.
«La principessa Margaret era una grande amica della mia ex moglie, che era inglese (Judy Montagu, n.d.R.). Ogni anno, per quarant’anni, è stata nostra ospite a Roma. Veniva in Italia perché si divertiva a conoscere le persone e le cose, non solo i monumenti. È per questo che l’ho portata anche da Mario Praz. Con Mario siamo diventati amici nel ’58: ero stato convocato dall’ambasciatore britannico per far parte di un comitato per la realizzazione di una statua di Byron a Villa Borghese. Visto che c’erano Goethe e tanti altri perché non Byron? Quando mi telefonò, gli chiesi che tipo di statua avevano in mente: mi disse che sarebbe stata la replica di quella di Thorvaldesen a Cambridge. Gli risposi che non ero sicuro che mi avrebbe voluto nel comitato, perché non sono un grande entusiasta di Thorvaldsen, né delle repliche. Avevo altre idee su come commemorare Byron. ‘Per esempio?’, fece lui. ‘Mandando una poetessa italiana in Inghilterra’, gli risposi sul momento. Mi disse che mi voleva nel suo comitato perché avrei potuto perorare la mia idea. Ecco perché mi ritrovai lì con vari luminari romani, tra cui Mario Praz. La mia idea di celebrazione con la borsa di studio premiò la poetessa Perla Cacciaguerra. Allora non lo sapevo, ma poi ho capito che Praz aveva appoggiato subito la mia proposta, perché era invaghito di lei».
Anche tu, come Praz, hai donato alla Fondazione Primoli il tuo archivio di 72mila negativi (tra bianco nero e colore) e parte della biblioteca…
«Sì, questa donazione mi ha dato un eccezionale ambiente di lavoro. Mi trovo benissimo tra i due musei e con la Fondazione stessa, sia il presidente che l’intero staff sono persone serie e interessanti. Apprezzo, in particolare, i doni e le doti di Patrizia Rosazza Ferraris, direttrice del Museo Praz che, insieme a Alvar González-Palacios e Maria Teresa De Bellis, responsabile della Biblioteca di Villa Medici hanno perorato la mia causa».
Il Surrealismo da una parte e il Neorealismo dall’altra sembrano i due riferimenti principali nell’evoluzione del tuo percorso di scrittore, critico d’arte e fotografo. Al primo hai partecipato frequentando a New York, nei primi anni Quaranta, la cerchia di artisti "importati" dall’Europa da Peggy Guggenheim. Quanto al secondo, si rintraccia quel tipo di visione negli scatti che raccontano l’Italia del dopoguerra, in particolare quelli siciliani del 1950. È così?
«L’arte è quella che è a prescindere dalle etichette. Ci si interessa delle cose più valide secondo le proprie inclinazioni: non importa se si chiama surrealista o neorealista».
Meyer Schapiro e Robert Motherwell sono due figure significative dei tempi in cui eri studente alla Columbia University: docente il primo e compagno di studi, nonché tuo migliore amico, il secondo. Con Motherwell, hai partecipato alla creazione della rivista surrealista VVV. Quali sono i tuoi ricordi di quel periodo?
«A proposito della rivista, il rapporto di Motherwell e il mio finì in maniera drammatica, perché eravamo stati nello studio di incisioni di Stanley William Hayter alla New School di New York e, dato che si avvicinava il Natale, facemmo delle incisioni per una carta di Natale e tutti fieri le portammo ad André Breton. Lui quando le vide andò su tutte le furie. Gridò ‘Borghesi! Serpenti! Per tutta la vita ho combattuto contro questa roba e mi portate carta di Natale. Fuori! Fuori!’ e ci buttò fuori. Non eravamo più co-direttori della rivista, anche se in realtà a dirigere la rivista era solo lui. Fummo sostituiti dall’amico, lo scultore David Hare, che era un essere adorabile ma quasi analfabeta».
Scrittura e fotografia saranno sempre due linguaggi paralleli per te. È stato decisivo nell’incontro con la fotografia la tua esperienza documentaristica come volontario dell’esercito americano in Cina nel 1945?
«Certo! C’ero andato come soldato nel corpo del genio combattente per creare la liaison tra il nostro esercito e quello cinese per i materiali come ponti smontabili, esplosivi… Finita la guerra, però, mi sono ritrovato nella sezione storica della guerra in Cina, nel quartiere maggiore dell’esercito a Shanghai. Il mio compito era osservare e scrivere sul rimpatrio dei giapponesi, che ho scoperto esser stato uno dei grandi movimenti di massa della storia. Tre milioni di persone, tra militari e civili, rimpatriati. Per questo andai anche a Taiwan, che allora si chiamava Formosa, dove i giapponesi si erano insediati dalla guerra del 1898, quando avevano strappato l’isola ai cinesi. In quella colonia c’erano tre generazioni di giapponesi, moltissimi dei quali non aveva mai visto il Giappone: tornavano in patria per la prima volta. Anche se erano ex nemici, non era molto piacevole vedere persone a cui era stato portato via tutto».
All’epoca fotografavi già con la Rolleiflex?
«No, allora avevo una Leica che mi aveva prestato qualcuno a Shanghai. Nel tempo sono passato, sempre volentieri, da una marca all’altra, tranne l’Hasselblad che non ho la pazienza di usare».
In Italia arrivi nel 1949: sbarchi a Napoli, insieme alla tua prima moglie Evelyn, con una borsa di studio sull’urbanistica italiana. Nel tuo legame con l’Europa - prima ancora che con il Belpaese - si può rintracciare anche il vissuto personale di figlio di ebrei russi emigrati a New York all’inizio del Novecento?
«I miei genitori non volevano essere ebrei e cercavano di non esserlo. Quando potevano parlavano in francese. La mia generazione all’università era tutta francofona. L’Europa, per me, era Parigi. Dopo la guerra non avevo alcun desiderio di tornare in Europa, che consideravo finita. Il Dipartimento di Stato mi aveva assegnato una borsa di studio per la Cina, ma Mao non ha voluto riconoscere quello scambio culturale, così, dovendo scegliere un altro Paese scelsi, anche per ragioni personali, l’Italia. C’ero stato anche nel ’39 durante il Grand Tour e poi avevo fatto i miei studi in storia dell’arte con una tesi del master su Giotto».
Hai lavorato per Adriano Olivetti e per l’Alitalia come consigliere culturale; dal 1954 sei corrispondente di Art News e consulente per Art in America. Alla dolce vita, all’aristocrazia internazionale, ma soprattutto al mondo dell’arte è dedicato molto del tuo lavoro. Tra i tuoi ritratti in bianco e nero che abbiamo visto recentemente in occasione della doppia mostra romana al Museo Bilotti e all’American Academy ci sono molti personaggi della scena artistica romana: da Scialoja a Burri, Dorazio, Rotella, Colla, Afro e poi Calder, de Kooning, Motherwell… Insomma per oltre sessant’anni sei stato testimone dei cambiamenti del mondo dell’arte. Oggi in che modo si esprime la tua testimonianza?
«Nei tanti ricordi. Come ho detto prima, quando c’è qualcosa di buono all’orizzonte si è attratti prima per una questione di occhio, poi per retroterra di esperienze e gusto».
Con alcuni di loro sei stato anche amico.
«Certo! Una cosa non esclude l’altra. C’erano degli interessi a prescindere dal rapporto personale. Per esempio con Clerici non eravamo veramente amici, né con Cagli. Guttuso era un caso particolare, perché era un uomo affascinante, anche se personalmente non ero d’accordo con le sue idee politiche. Ero a metà strada tra l’interesse per la sua pittura e il rigetto totale. Con Scialoja e Burri, invece, ho avuto un forte legame».
Di Burri sei stato un grande sostenitore in un momento in cui la sua opera creava parecchio disturbo.
«Quello che faceva era molto interessante, soprattutto per quell’epoca. Sul piano personale non c’era un’amicizia come, ad esempio, quella con Scialoja, perché Burri non era un intellettuale, era un signore di campagna che amava andare ad ammazzare gli scoiattoli. Con Scialoja, invece, c’è stato uno scambio intellettuale e ancora di più con sua moglie Gabriella, che era una delle persone più brillanti tra gli intellettuali di Roma e un critico d’arte eccelso».
Nel tuo precedente appartamento, all’isola Tiberina, Michelangelo Antonioni ha girato l’inizio del film "L’avventura" (1960). Che effetto ti ha fatto l’invasione della macchina da presa?
«Macchina da presa, fili e cavi dappertutto… Monica Vitti era di una simpatia eccezionale, Antonioni invece era un po’ serioso. Lo conoscevo da quando era agli inizi e aveva fatto un documentario sulla raccolta dei rifiuti a Roma. Nel mio appartamento girarono per due, tre giorni, filmando una sequenza nella camera. Il letto è qui, nella stanza accanto. Andavano su e giù, uscivano e entravano… Hanno girato una piccola scena anche nella galleria della Roma-New York Art Foundation che era sotto casa».
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giovedì 10 gennaio 2013
Il fotografo di una vita molto dolce
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