mercoledì 7 marzo 2018

Il Napoletano, tra lingua, idioma, dialetto…


La storia del dialetto napoletano è tutt’una con la storia delle varie presenze forestiere che ha caratterizzato gran parte dello sviluppo della città di Napoli.
In effetti, la città di Partenope fu la maggiore città della Magna Graecia già al IX sec. a.C. e per lungo tempo conservò il suo “greco” dorico, fino allo scenario Romano col suo “latino parlato” da militari, commercianti, coloni, amministratori etc.
Fosse già solo per questo, appare dunque opportuno incoraggiare ogni iniziativa tesa alla difesa, alla tutela e al recupero del dialetto perché nel cuore di esso alberga tanta parte della nostra storia, dei nostri costumi, del nostro stesso modo di essere.

Il dialetto di Napoli è il più antico degli idiomi in Italia, è l’immediato nato dopo del declinato latino. Esso è un idioma romanzo che, accanto all’italiano, è correntemente parlato non solo in Italia meridionale (cioè nelle regioni della Campania, Basilicata, Calabria settentrionale, Abruzzo, Molise, Puglia e nel Lazio meridionale, al confine con la Campania, con le variabilità dovute alla provenienza o alla posizione geografica), ma anche all’estero tra gli emigrati.
Si noti che il primo documento «ufficiale» della lingua italiana (Carta di Capua, redatto nel 960 da tre religiosi benedettini) appare scritto in una forma sostanzialmente “napoletana”: «Sao… ko kelle terre… le possette…» (“sao” vicinissimo al nostro “saccio”, “kelle” con “chelle” e “possette” cioè possedette che riproduce alla lettera l’analogo perfetto napoletano dei verbi della seconda coniugazione (dicette, facette, tenette, ecc.).
Tracce si trovano anche all’inizio del Trecento, con una volgarizzazione dal latino della “Storia della distruzione di Troia” di Guido delle Colonne. La prima opera in prosa è invece considerata comunemente un testo di Matteo Spinelli, sindaco di Giovinazzo, conosciuta come “Diurnali”, un cronicario degli avvenimenti più importanti del Regno di Sicilia dell’XI secolo, che si arresta al 1268.
Il “latino popolare” parlato a Napoli già nell’Alto Medioevo, fu solo parzialmente sostituito dal “greco” durante la dipendenza da Bisanzio (specie nei secoli VI-VII-VIII d.C.).
Il napoletano ha inoltre subìto nella sua storia, influenze e “prestiti” dai vari popoli che hanno abitato o dominato la Campania e l’Italia centro-meridionale, più recentemente, i normanni, i francesi, gli spagnoli e perfino gli americani, durante la seconda guerra mondiale e la conseguente occupazione di Napoli, hanno contribuito con qualche vocabolo. Va però chiarito che tutti gli apporti che il partenopeo ha subito sono soltanto di natura lessicale: in altre parole apporti ristretti a parole nude e semplici, senz’alcuna struttura grammaticale di natura fonetica, morfologica o sintattica. Soprattutto per quanto riguarda lo spagnolo, è errato attribuire esclusivamente all’influenza spagnola la somiglianza tra il napoletano e quest’idioma: trattandosi di lingue ambedue romanze o neolatine, la maggior parte degli elementi comuni vanno fatti risalire al latino volgare.
Il dialetto napoletano fu per oltre un secolo anche lingua ufficiale del Regno di Napoli. Sostituì il latino nei documenti ufficiali e nelle assemblee di corte a Napoli, dall’unificazione delle Due Sicilie, per decreto di Alfonso I, nel 1442.

Nel XVI secolo re Ferdinando il Cattolico impose il castigliano come nuova lingua ufficiale e il napoletano di stato sopravviveva solo nelle udienze regie, negli uffici della diplomazia e dei funzionari pubblici. Gli interessi umanistici presero un carattere più politico. Alla corte dei figli di Ferdinando I di Napoli però i nuovi sovrani incentivarono l’adozione definitiva del toscano come lingua letteraria anche a Napoli.
Seguì un lungo periodo di incertezze per la lingua napoletana, finché la fine del dominio aragonese portò ad un rinnovato interesse culturale per il volgare cittadino.
Ne “Lo cunto de li cunti”, 50 fiabe in lingua napoletana scritte da Giambattista Basile, edite fra il 1634 e il 1636 esiste la prima trascrizione della favola della letteratura occidentale. Con Basile, il più celebre poeta napoletano d’età moderna, Giulio Cesare Cortese, pone le basi per la dignità letteraria ed artistica della lingua napoletana moderna. Di costui si ricorda la “Vaiasseide”, un’opera eroicomica in cinque canti, abbassata a quello che è il livello effettivo delle protagoniste: un gruppo di vaiasse, donne popolane napoletane, che s’esprimono in dialetto.
“Il parlare di Napoli ha tanti vocaboli e frasi che se alcuno volesse un vocabolario formarne non so se mai compirlo potrebbe” (V. Oliva, Grammatica della lingua napoletana, 1728).
Testimonianza di tanta ricchezza espressiva è fornita dal numero dei Vocabolari dialettali che ammontano ad oltre cinquanta e che includono Dizionari botanici, zoologici, ornitologici, onomatopeici…

Pur essendo il più antico idioma, il napoletano, volgare e parlato in una vastissima area peninsulare ed insulare, non riuscì ad imporsi come lingua ufficiale e nazionale, cosa che invece riuscì ad un altro dialetto locale, quello fiorentino, parlato in un’area più circoscritta e verosimilmente da un numero minore di persone.
In effetti, il dialetto fiorentino s’impose per ragioni storico-politiche in quanto mercanti e banchieri toscani brigarono per imporre il loro dialetto come lingua comune, mentre nel Meridione la perdita dell’indipendenza post-unitaria penalizzò ulteriormente il dialetto/idioma napoletano, già non più in uso negli atti pubblici della nazione e già confinato negli scritti ingiustamente ritenuti buffoneschi di scrittori del calibro di Giulio Cesare Cortese, Giambattista Basile, Filippo Sgruttendio (pseudonimo dello stesso G.C. Cortese), Niccolò Capasso, Pompeo Sarnelli ecc....
L’avvento dei Savoia fece il resto (e anche il regime fascista non fu da meno). Tra il 1915 ed il 1918, i fanti meridionali furono mandati a difendere i confini d’Italia, e, poiché parlavano solo il napoletano, non riuscendo spesso a capire gli ordini dati in lingua italiana finirono per eseguirli a modo loro rimettendoci la pelle per una patria mai veramente sentita tale.
Taluni non definiscono lingua il napoletano per il sol fatto che non è parlato da tutta una nazione e resta nell’ambito della varietà dei dialetti e delle parlate regionali. Eppure, è stato per molto tempo un sistema di elementi lessicali e di forme grammaticali al pari della lingua italiana, francese, inglese, tedesca, araba ecc, mezzo di comunicazione scritta ed orale di molti individui.
Per altri, non si deve neppure definire dialetto perché in genere con tale termine s’intende un volgare o un linguaggio minore della lingua ufficiale, cosa che non si addice al napoletano che è invece un’apprezzabilissima parlata autonoma figlia del tardo latino e di quello volgare e parlato, idioma ricco di storia e di testi ed usatissimo per secoli in tutto il meridione.
L’ italiano moderno, in effetti, è un dialetto (il fiorentino) che riuscì ad imporsi come lingua ufficiale di una regione più vasta di quella originaria, rubando a piene mani nei linguaggi e nelle opere di artisti meridionali.
Alla base dell’italiano si trova, infatti, il fiorentino letterario usato nel Trecento da Dante, Petrarca e Boccaccio, che fu a sua volta influenzato dalla lingua siciliana letteraria elaborata in origine dalla Scuola siciliana di Giacomo da Lentini e dal modello latino.
L’italiano è pervenuto poi alle nostre latitudini anche per il tramite degli invasori lombardi piemontesi, tentando di soppiantare senza riuscirvi la nostra parlata autoctona.
L’italiano s’impose come lingua nazionale per l’opera interessata di poeti e scrittori, di mercanti e di banchieri ed in età post-unitaria per la proditoria diffusione voluta dai Savoia e dal fascismo e la vessatoria opera di ministri, filosofi e professori che per anni imposero ai ragazzi esclusivamente Divina Commedia e Promessi Sposi, Cuore etc. tenendo in nessun conto tutta la produzione seicentesca ed ottocentesca napoletana.
Ed inoltre, negli ultimi tre secoli, è sorta una fiorente letteratura in napoletano, in settori anche diversissimi tra loro, che in alcuni casi è giunta anche a punte di grandissimo livello, come ad esempio nelle opere di Salvatore di Giacomo, Raffaele Viviani, Ferdinando Russo, Eduardo Scarpetta, Eduardo de Filippo, Antonio De Curtis

E quindi, per concludere, né dialetto, né lingua ma idioma, da insegnare almeno nel meridione, in tutte le scuole d’ogni ordine e grado.

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