pubblicato martedì 15 dicembre 2015
«L’aspetto di Ferrara, una delle città più belle d’Italia, mi aveva colpito; ma quello che mi colpì soprattutto e m’ispirò nel lato metafisico nel quale lavoravo allora, erano certi aspetti d’interni ferraresi, certe vetrine, certe botteghe, certe abitazioni, certi quartieri, come l’antico ghetto, ove si trovavano dei dolci e dei biscotti dalle forme oltremodo metafisiche e strane». Così nelle sue Memorie (1945) Giorgio de Chirico rievoca «la misteriosa bellezza di Ferrara», città in cui il pittore giunge, militare, nel giugno del 1915 e dove resta fino al dicembre del 1918. Nei tre anni e mezzo trascorsi nella città estense, de Chirico dipinge «parte in caserma, parte in camere mobiliate ed alberghi e parte in ospedali militari» una cinquantina di dipinti, per lo più raffiguranti manichini e interni metafisici. Queste opere singolari, realizzate mentre l’Europa è scossa dalla furia insensata della Grande guerra, eserciteranno un’enorme influenza sui successivi sviluppi dell’arte italiana e internazionale.
Nella ricorrenza del centenario dell’arrivo di de Chirico a Ferrara, la città ha allestito nelle sale del Palazzo dei Diamanti, fino al 28 febbraio 2016, una mostra eccezionale per rigore scientifico e qualità delle opere esposte, intitolata De Chirico a Ferrara. Metafisica e avanguardie (il bel catalogo è edito dalla Fondazione Ferrara Arte). Curata da Paolo Baldacci e Gerd Roos, massimi esperti del pittore, la rassegna è organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dalla Staatsgalerie di Stoccarda (che ospiterà la mostra dal 18 marzo al 3 luglio 2016) in collaborazione con l’Archivio dell’Arte Metafisica (Milano/Berlino).
È la prima volta che una mostra focalizza l’attenzione solo sugli anni ferraresi di de Chirico, un periodo assai circoscritto, ma molto importante. Il pittore, infatti, entrando in sintonia con la città, crea alcuni nuovi soggetti destinati a una larga fortuna. A Ferrara, inoltre, avviene l’incontro di de Chirico con l’ex futurista Carlo Carrà. E l’esposizione offre l’occasione unica di vedere di nuovo insieme le opere dipinte a Villa del Seminario, l’ospedale psichiatrico militare per la cura delle nevrosi di guerra, dove i due vengono ricoverati nella primavera-estate del 1917 e dove danno vita a un breve ma intenso sodalizio artistico.
I curatori sono riusciti a riportare a Ferrara ben ventotto capolavori metafisici dipinti da de Chirico durante il soggiorno nella città estense e addirittura undici dipinti (su tredici) del periodo ferrarese di Carrà. Questo confronto aiuta a far luce su una questione controversa, ancora oggi dibattuta, relativa al contributo dato da ciascuno dei due artisti alla nascita dell’arte metafisica. Nel 1918, quando nasce la rivista «Valori Plastici», che farà conoscere le loro opere, de Chirico scrive a Carrà: «Siamo i nuovi Vespucci, i nuovi Colombo. Portiamo in noi le tristezze e le speranze delle spedizioni lontane». Ma ben presto i rapporti si guastano, perché Carrà cerca di presentarsi al pubblico come l’unico inventore della pittura metafisica.
Attraverso confronti mirati, la mostra illustra inoltre l’influenza esercitata dalla metafisica di de Chirico e Carrà sull’arte italiana (di Morandi sono esposti alcuni magnifici capolavori eseguiti tra il 1916 e il 1919) e sulle avanguardie europee del dopoguerra (tra gli altri:Magritte, Dalì, Man Ray, Max Ernst).
Il sogno di Tobia (1917) di de Chirico, per esempio, è stato uno dei quadri fondativi del Surrealismo. Il dipinto, ispirato alla storia biblica di Tobia e l’angelo, nasce come una metafora dell’arte metafisica (un’arte che fa vedere ciò che non è visibile), ma per il richiamo al tema del sogno, per la soluzione del «quadro nel quadro» e per l’effetto di spaesamento creato accostando fra loro oggetti disparati, sarà un manifesto della poetica surrealista. Non a caso proprio questo dipinto si vede alle spalle di André Breton in una foto che ritrae il gruppo surrealista al suo esordio nel 1924.
Il percorso della mostra è diviso in sezioni tematiche: Ferrara; la solitudine dei segni e la pazzia del mondo; L’angelo ebreo e il tema dell’occhio; Interni metafisici e «quadro nel quadro»; de Chirico e Carrà a Villa del Seminario; «Valori Plastici» e la pittura europea; i manichini tra Dadaismo e Surrealismo. Ogni sala, inoltre, è arricchita da vetrine in cui sono esposti rari documenti d’epoca (lettere, cataloghi, riviste, fotografie). Naturalmente emergono anche aspetti della vita privata dell’artista, come la storia d’amore con la ferrarese Antonia Bolognesi, ritratta nel dipinto Alcesti (1918). Nulla si sapeva di questa toccante vicenda (finita male a causa dell’opposizione del padre di lei e della madre di lui), finché l’anno scorso Eugenio Bolognesi, nipote della donna, ha pubblicato il carteggio intercorso tra i due innamorati.
L’ultima sala, perfino da sola, varrebbe la visita. Su una parete sono schierati i grandi manichini di de Chirico, che sintetizzano tutta la sua personale concezione dell’arte e del mondo: Il Trovatore, Il grande metafisico e Ettore e Andromaca. Eseguiti nell’autunno del 1917, sono quadri mitici dell’epoca metafisica, poi replicati dall’artista tante volte negli anni a venire. Completa la parete un altro dipinto straordinario, Le Muse inquietanti (1918), con il castello estense nello sfondo. L’opera, appartenuta alla storica collezione milanese di Gianni Mattioli, non si vedeva da cinquant’anni, così come Ettore e Andromaca, un quadro che parla di addii e partenze per la guerra. Considerando che questi quattro dipinti si conservano tutti in collezione privata (Il grande metafisico era al MoMA di New York, che nel 2004 lo ha venduto tramite Christie’s) sarà molto difficile, dopo questa mostra, rivederli presto. E soprattutto sarà quasi impossibile rivederli tutti insieme, così allineati su un’unica parete a formare una serie davvero spettacolare.
Flavia Matitti
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mercoledì 16 dicembre 2015
A FERRARA UNA METAFISICA DA NON PERDERE
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