Qualora un personaggio pubblico, che occupa una posizione
rilevante nella vita sociale, economica e politica, rilasci delle dichiarazioni
diffamatorie nei confronti di un altro personaggio che occupi una posizione
analoga, "è la dichiarazione rilasciata dal personaggio intervistato
che crea di per sé la notizia, indipendentemente dalla veridicità di quanto
affermato e dalla continenza delle parole usate".
Di conseguenza, la
notizia, anche se lesiva della reputazione altrui, merita di essere pubblicata,
in quanto diretta a soddisfare l'interesse della collettività alla
informazione, interesse tutelato ai sensi dell'art. 21 della Costituzione.
Secondo gli Ermellini, pretendere
che il giornalista controlli la verità storica del contenuto della intervista
potrebbe comportare una grave limitazione della libertà di stampa e comprimere
il diritto-dovere di informare l'opinione pubblica su un dato evento, non
potendosi attribuire, al giornalista, il compito di "purgare il
contenuto dell'intervista dalle espressioni offensive, sia perché gli verrebbe
attribuito un potere di censura che non gli compete, sia perché la notizia,
costituita appunto dal giudizio non lusinghiero, espresso con parole forti da
un personaggio noto all'indirizzo di un altro personaggio noto, verrebbe ad
essere svuotata del suo reale significato".
Sulla base di tali premesse, i
giudici della Quinta Sezione Penale della Cassazione individuano una posizione
almeno paritaria tra soggetti dichiaranti e soggetti lesi dalle dichiarazioni,
situazione che rileva ai fini dell'interesse pubblico della notizia, con
conseguente insussistenza di alcun onere, in capo al giornalista, di svolgere
una attenta verifica sia sul fatto che sul linguaggio utilizzato.
(Altalex, 22 luglio 2013. Nota di Simone Marani)
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