pubblicato sabato 14 maggio 2016
Sabrina Casadei (Roma, 1985) ha vinto un bando ed è stata chiamata per una delle residenze più complete in Europa, la Nordic Artists’ Centre Dale/Nordisk Kunstnarsenter Dalsåsen, sulla costa ovest della Norvegia. La Casadei per tre mesi – da febbraio a fine aprile 2016 – ha avuto a disposizione una casa e uno studio situato sopra una collina e affacciato su un fiordo, il Dalsfjord, sopra la cittadina di Dale i Sunnfjord. L’artista romana ha così lavorato in relazione con la natura, principale protagonista della sua ricerca pittorica, assorbendo colori e spazi che nel suo luogo in Italia non esistono. Durante il soggiorno l’artista era in costante dialogo – via skype e attraverso un fitto scambio di mail – con Rossella Farinotti, critica e curatrice con cui la Casadei ha stretto una forte relazione umana e lavorativa dal 2011. E così è nata questa conversazione, trimestrale.
Parte I
Hai vinto una delle residenze più importanti in Europa: la "Nordic Artists’ Centre Dale”, fondata dal Ministero della Cultura norvegese, ed è la migliore dei Paesi Scandinavi. Come hai fatto?
«In realtà me lo chiedo ogni giorno dopo essermi resa conto della grande opportunità che ho avuto. Ho risposto ad un open call che sapevo essere molto difficile, visto che quest’anno sono state 1300 le applications. Ci ho provato perché credo nel mio lavoro, e sono stata scelta. Una volta arrivata qui, parlando con gli altri artisti, tra cui alcuni scandinavi, e vedendo gli spazi a disposizione, ho capito la reale importanza di questa residenza. Sono stata subito felice e anche spaventata, investita in qualche modo da una responsabilità verso me stessa e verso chi mi ha voluto qui. L’impressione è che io sia qui perché il mio lavoro è ritenuto valido e questo mi ha dato subito una grande energia. Sto imparando molto e sono contenta».
Credo che la forma della residenza per un artista sia oggi una delle tipologie di lavoro migliori: si ha la possibilità di concentrarsi solo su sé stessi e sul proprio modus operandi; conoscere un luogo nuovo, spesso diversissimo da casa propria; interagire con altre persone, che non si conoscevano prima e si è lontani da casa, che spesso non fa male. Ti ci ritrovi in questa idea, o pensi sia una descrizione banale?
«Per me la residenza d’arte è una delle soluzioni migliori per la mia "impossibilità di stare ferma”, per la costante necessità di cambiamento. Mi permette di avere un periodo in cui posso pensare solo al mio lavoro, dimenticandomi della routine quotidiana fatta da mille distrazioni. È un privilegio che vorrei fosse a tempo indeterminato. I luoghi, come sai, sono fondamentali nel mio lavoro. Per questo motivo ci tenevo profondamente a venire qui per confrontarmi con una natura così estrema. Ho la sensazione che tutto quello che sto facendo stia prendendo forma dall’esterno. Sembra che io abbia una maniera "norvegese” di concepire il paesaggio, pur non essendo mai stata qui prima. È molto bello il confronto che si sta creando con gli altri artisti in residenza e con il direttore Arild H. Eriksen. Questo tipo di dialogo spesso mi manca e mi dà una grande forza per continuare a pormi domande, a mettermi in gioco».
Il tuo studio è pazzesco: hai delle vetrate enormi che danno su un paesaggio tutto bianco e su un fiordo. È una natura diversa, soprattutto rispetto a casa tua, vicino a Roma. Ti piace?
«L’idea di "abituarmi al bianco” è stato il mio primo impatto. La prima conversazione che ho avuto nel tragitto dall’aeroporto alla residenza con Arild, il coordinatore, riguardava appunto questo non-colore: l ’occhio, all’inizio, aveva difficoltà di adattamento. Lui ha espresso esattamente il mio pensiero: intorno a me avevo proprio i paesaggi dipinti nelle mie tele. Nel percorso di due minuti di strada da casa allo studio, mi si palesano le "mie” montagne, il "mio” fiordo e la "mia” isola. Ho bisogno di possedere i luoghi, che siano reali o immaginati, che poi diventano qualcos’altro nella mia mente. Devo costruire una relazione con loro, interagire e instaurare una certa confidenza. In questo ho grande difficoltà perché sono diffidente, un po’ come lo sono con le persone. Ma con i luoghi è più facile perché ti sanno accogliere meglio. Solo così le mie difese cadono e inizia un rapporto onesto con la pittura».
Cosa stai dipingendo? Hai pensato prima ai lavori da sviluppare, o ti stanno venendo idee in maniera naturale? O a caso?
«Prima di arrivare qui non sapevo assolutamente quale piega potesse prendere il mio lavoro. Sono arrivata e mi sentivo come un foglio bianco - anche un po’ stropicciato - senza alcuna consapevolezza e con un po’ di paura, ma quella paura sana che si ha prima di cominciare. Poi la mente assorbe la luce, l’aria, il materiale si accumula e il lavoro inizia in maniera tanto naturale quanto inaspettata. Spesso mi dimentico quanto non possa fare a meno di dipingere: ora lo sto facendo all’aperto. Mi piace avere quella ritualità nella stessa ora del giorno; le scomodità dei mezzi tecnici; il sole negli occhi; le dita pian piano gelate. Tutti questi elementi permettono l’accadimento di una buona quantità di incidenti che sono alla base del mio lavoro».
Parte II
Come procedono le tue giornate? Le tue risposte sono chiare, ma molto controllate. Mi chiedo se adesso, che sei li da più di un mese ormai, hai perso un po’ di controllo e guadagnato istintività nel modo di fare. Non parlo del lavoro, in quello hai sempre dosato bene la cura dei particolari e dei paesaggi che racconti, ma parlo di te. Se arrivata li da Roma un po’ intimidita ma ora, in mezzo ai fiordi, alla natura così pura e avvolgente, ti senti più libera?
«Sto producendo molto e mi sento totalmente abbandonata alla pittura. Credo che in questo senso abbia raggiunto degli attimi di estrema libertà. Il contatto diretto con la natura è elettrizzante: mi carica di energia. Così continuano le mie giornate. Ti racconto un episodio divertente: anche se ho ancora paura di dormire nella casa di legno, mi sono avventurata in una "strada” inagibile sulla costa del fiordo, rimanendo impantanata con la macchina in mezzo al nulla. Una volta tornata a piedi in residenza per chiedere aiuto, Arvid Pettersen - un incontro illuminante, nonché uno dei pittori norvegesi più noti degli anni Sessanta - mi dice "You are crazy, I like you!”».
Sei riuscita a sviluppare il lavoro installativo sul ponte di cui mi parlavi? È bellissimo, anche a livello poetico, perché crei un’interazione fisica con la natura. Non la ricrei e basta nella tela, esci fuori.
«In realtà non sarà più sul ponte, ho ridimensionato molto l’idea. Era un progetto che richiedeva dei tempi troppo lunghi che non mi posso permettere, quindi monterò una struttura dall’ultimo piano di una falegnameria la cui facciata dà sul fiordo. Mi piace molto instaurare un contatto diretto con lo spazio, quindi avere un progetto site-specific è importante per me. Vorrei realizzare una grande tela, un’appendice del luogo, cucendo insieme dei materiali in plastica utilizzati nelle fattorie per conservare il concime durante l’inverno. Saranno giorni intensi!».
Parliamo sempre di te, della solitudine che ti circonda. L’altro giorno mi raccontavi che le sere ogni tanto le passi con gli altri artisti invitati. Stai creando delle buone relazioni?
«Sono passata attraverso due gruppi di artisti, molto diversi tra loro. A marzo c’erano tre pittori ed un artista del suono; con loro ho instaurato un bel dialogo sull’arte in generale. Ad aprile è cambiata la formazione: degli artisti precedenti sono rimasta solo io, poi è arrivata una videomaker, una che lavora con la Textile art, un artista colombiano che principalmente disegna, e due architetti danesi. Con quest’ultimo gruppo il dialogo è meno incentrato sull’arte, ma siamo molto più socievoli tra noi. Facciamo spesso cene».
Parte III
Ciao Sabrina, ho un po’ paura a chiederti come va: so che stai realizzando – anzi, sei ormai al termine perché inauguri – la tua meravigliosa installazione. Hai cucito i pezzi di una grande tela, come Penelope in qualche modo: lei non voleva andare in moglie ai Proci, tu, forse non vuoi che questa avventura finisca. Però è arrivato il gran giorno, sei riuscita a unire la tua formazione pittorica con il paesaggio norvegese. Sei soddisfatta?
«Ciao Rossella, oggi abbiamo fatto la prova dell’installazione e il mio grande arazzo si è dispiegato nel fiordo. Sono elettrizzata! È un’emozione molto diversa rispetto alla pittura che vedo quotidianamente crescere. Infatti, nonostante i grandi spazi, ho dovuto cucire piegando il lavoro in parti - le dimensioni totali sono 6,5x14 metri -, quindi, oggi per la prima volta ho avuto una visione totale dell’opera. La natura, sempre protagonista dei miei lavori, qui agisce in prima persona animando la grande tela tramite il vento e il movimento dell’acqua. Per quanto riguarda me, mi sento come una grande palla che si sta sgonfiando lentamente e sto già pensando alla valigia che devo fare. In questo posto ho dato me stessa: ho lavorato e prodotto tanto e sono stata ripagata con tutto il suo splendore. Il risultato è stato installato su una piccola spiaggia che si affaccia sul fiordo, dalla quale si ha la visuale della grande tela: Bølge (Onda)».
Un nome, un programma. Anzi, una residenza.
Rossella Farinotti
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martedì 17 maggio 2016
UNA RESIDENZA IN BIANCO
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