mercoledì 24 aprile 2013

Linvenzione del paesaggio

Fondazione Ferrara
L’invenzione del paesaggio
Si è aperta ieri al MAXXI la bella mostra "Luigi Ghiri. Pensare per Immagini. Icone Paesaggi Architetture". Al fotografo italiano, cui il mondo oggi guarda con crescente interesse, si deve un’inedita coscienza visiva del paesaggio e la scoperta della periferia come "non luogo", non meno nobile dei centri storici prossimi a diventare luna park. Pubblichiamo un estratto del testo Il cubo e le tettoie azzurre di Pippo Ciorra dal catalogo della mostra
pubblicato mercoledì 24 aprile 2013

Luigi Ghirri Marina di Ravenna, 1986 da: Paesaggio italiano (1980-1992) da: Il profilo delle nuvole (1989) C-print, vintage cm 17,8 x 22,5 Courtesy Fototeca Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia ©Eredi Ghirri
Il paesaggio è presente fin dall’inizio nella ricerca fotografica di Luigi Ghirri. In lui in qualche modo tout se tiens. La sua personale idea di paesaggio si va precisando esattamente nel momento in cui la cultura spaziale è costretta a elaborare il lutto di un’idea romantica e idealistica del paesaggio. Ghirri si affaccia a questo paesaggio a partire dai "tre chilometri di raggio" da casa sua. Vale a dire la via Emilia, un’area di industrializzazione veloce e urbanizzazione inarrestabile, ai margini del nordest, che però non riesce a sostituire una nuova idea di città alla vecchia. Può solo continuare a stratificarci sopra, impilando materiali, immagini e significati. Ghirri scopre che la fotografia è un’arma letale per cercare di discernere all’interno di questo collage, mostrarne gli elementi che sono lì da sempre, scrutare il modo in cui le persone lo vivono, comprenderne il carattere "familiare" e la difficile intima bellezza. Non a caso la nebbia, il buio, la neve compaiono spesso a ricordarci quanto forte sia l’identità di questi luoghi, e il modo in cui le persone li percepiscono, a dispetto della loro trasformazione.

Luigi Ghirri Roncocesi, casa di Luigi Ghirri, 1991 da: Paesaggio italiano (1980-1992) C-print, vintage cm 24 x 30,4 Courtesy ©Eredi Ghirri
Una volta traslato il suo modo di costruire la visione verso paesaggi più concreti, Ghirri sente il bisogno di fissare in qualche modo il suo punto di vista. A partire dall’indimenticabile inquadratura dell’alpe di Siusi e dei due turisti che osservano l’orizzonte, lo fa, come al solito, con dei progetti culturali ed editoriali. Con l’opera collettiva Viaggio in Italia (1984) offre una specie di melanconico saluto al paesaggio italiano del dopoguerra – dal quale fatica a separarsi – e dà ufficialmente il via a una scuola di fotografi italiani che attraverso il dialogo col nuovo paesaggio spingono la fotografia verso una condizione di autonomia espressiva. Con Esplorazioni sulla via Emilia (1986) Ghirri fa un passo in avanti e diviene "l’interprete principale del paesaggio italiano". Col Profilo delle nuvole affina l’idea di spaesamento che si nasconde in ciò che più ci è familiare e allarga il campo dei suoi alleati e interlocutori, aprendo un dialogo con i narratori e con Celati. La mostra Paesaggio italiano sembra in qualche modo chiudere questo percorso.

Luigi Ghirri Versailles, 1985 C-print, vintage cm 40 x 50 Courtesy Fototeca Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia ©Eredi Ghirri
 
Gli effetti dell’impatto di Ghirri sull’idea stessa della fotografia urbana e di paesaggio sono enormi. Soprattutto se considerati insieme al lavoro di alcuni dei fotografi che coinvolge nel Viaggio in Italia. Con Basilico, Barbieri, Castella, Jodice, Fossati e un manipolo di altri autori, Ghirri riesce in un’impresa quasi impossibile: offrire una lettura inedita e sorprendente, quasi "di denuncia", del territorio italiano, pronta all’uso da parte dei professionisti del territorio, e allo stesso tempo costruire intorno a questa visione uno status artistico per la fotografia e un’estetica del proprio tempo. Costruisce cioè un documento che è capace di sedimentare senso e di spogliarsi istantaneamente della condizione di documento. In questo paradosso, intorno al quale continuiamo tuttora a lavorare, risiede il cuore del contributo dell’artista alla nostra consapevolezza dello spazio che viviamo e che vorremmo saper modificare. La passione di Ghirri per le altre arti e per gli altri mondi fa si che si renda in qualche modo conto che non è un fenomeno che si limita alla via Emilia o alla Romagna o al paesaggio italiano. Non viaggia molto, o perlomeno non ama le lunghe distanze, quindi deve estendere quello che riesce a vedere attraverso la musica di Dylan, le immagini di Wenders, oltre alle foto amate degli autori americani. In questo modo dolcemente provinciale Ghirri finisce per raccontarci tutti i paesaggi occidentali e a elaborare un paradigma valido, almeno per molti aspetti, a Roncocesi come sulla Route 66. 

Luigi Ghirri Rifugio Grostè, 1983 da: Paesaggio italiano (1980-1992) new C-print (2013) cm 20 x 30 Courtesy Fototeca Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia ©Eredi Ghirri
Un’altra inattesa iniezione di attualità nell’opera di Ghirri è la riflessione sul concetto di periferia. Che scompare prima nelle sue foto e poi, molto dopo, nella percezione degli architetti e degli urbanisti più avveduti. Il modo in cui le sue immagini registrano gli spazi rende impossibile una distinzione valoriale tra centro e periferia. I particolari, il movimento della luce, i singoli spazi migrano dolcemente tra casali e palazzi, angoli di città e quartieri dispersi, spiagge e giardini, delineando la nuova topografia del paesaggio contemporaneo, ostile a ogni gerarchia storica tra i quartieri urbani. La via Emilia, che fa crescere una sua propria città e che attraversa uguale ogni spazio, è la metafora perfetta di questa uguaglianza ed è per questo che rimane come una delle guide ricorrenti ai paesaggi ghirriani. Per capire questa condizione agli architetti c’è voluto qualche decennio in più, e senza il lavoro di quei fotografi forse ci sarebbe voluto ancora più tempo. Ghirri, che nel frattempo nella mostra Immagine e realtà del 1981 ha conosciuto Calabrese, Farinelli e altri attenti lettori del paesaggio fisico e concettuale, ci ha insegnato a guardare, a isolare la singola visione e a indagare sulle sue componenti e su ciò che va compreso per capire le qualità di uno spazio. Ci ha insegnato che l’architettura non va "autenticata", ma inserita nella visione per cogliere la sua capacità di "mettersi al passo" col paesaggio che la ospita, di cambiare insieme a lui, di definirsi mano a mano attraverso l’uso. «Mi sono affezionato [alle architetture di Aldo Rossi] anche per quei suoi colori teneri delle facciate, che sembrano voler dialogare con quelli un po’ spenti dei luoghi dove sorgono, ed anche per questo suo coraggio civile di dimenticarsi, di lasciare allo spazio, ai materiali, ai volumi, il compito di diventare per noi architettura, di lasciare che siano il tempo e l’uso a dare il senso a questa straordinaria Architettura senza Architetto».

Nessun commento:

Posta un commento