Procida (NA). Riflessioni di Franco Lista su “Il Cristo morto” di Procida

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Nota di Maurizio Vitiello – Riceviamo e, volentieri, pubblichiamo una precisa e alta riflessione su “Il Cristo morto di Procida” di Franco Lista, architetto, docente universitario, conferenziere, artista, già Coordinatore degli Ispettori Tecnici del M.P.I. della Regione Campania, tra i maggiori intellettuali italiani.
 Il Cristo morto di Procida
di Franco Lista
Venerdì 4 e Sabato 5 Aprile 2014, organizzato da Gabriele Scotto di Perta, Priore della Congregazione dei Turchini di Procida, si è tenuto un convegno sul Cristo morto di Carmine Lantriceni con interventi di Anna Iozzino, Elviro Langella, Franco Lista e Sergio Zazzera. Hanno moderato e condotto i lavori Giacomo Retaggio e Guglielmo Taliercio.
Il testo che segue è la registrazione dell’intervento di Franco Lista. 
Buona sera e benvenuti alla seconda parte del convegno. Intanto, vi rassicuro subito: non arrischierò alcuna sottile esegesi sulla settecentesca scultura in legno policromo del Cristo morto di Carmine Lantriceni sul quale è stata prodotta già una discreta letteratura storico-critica. Mi limiterò, come ho indicato nel titolo della mio intervento, a pochi spunti di riflessione.
Il primo spunto, necessariamente prioritario, attiene al fatto che quasi dopo un quarto di secolo ritorno a considerare l’opera del Lantriceni. Non si tratta di una riflessione nostalgica, anche se alcuni eccellenti autori (penso a Eugenio Turri) sostengono il “diritto alla nostalgia” che è, non solo nòstos e algia, ma anche condizione per scorrere criticamente e fruttuosamente la propria esperienza.
Nell’aprile del 1990, esattamente 24 anni fa, documentammo con un bel catalogo, da me curato, il primo restauro scientifico del Cristo. Promossi, per questo, una rara sinergia tra la Congregazione dei Turchini, l’Accademia di Belle Arti di Napoli, la Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici e l’Azienda di Soggiorno e Turismo di Ischia e Procida.
Utilizzando sia il mio ruolo di Ispettore per l’Istruzione Artistica, sia rapporti personali di cordiale amicizia, riuscii a mettere insieme, a formare una schiera di persone molto motivate sul destino conservativo della bella opera del Lantriceni: Gianni Pisani, allora Direttore dell’Accademia, Mario Tatafiore, Docente di Restauro, purtroppo poi prematuramente scomparso, Mimmo Jodice, Docente di Fotografia, Anna Caputi, Docente di Storia dell’arte, tutti dell’Accademia di Belle Arti e, ancora, Gabriele Castaldo, esperto di scultura lignea, Vincenzo Bergamene che curò in modo impeccabile la grafica del catalogo.
Inoltre, Gabriele Scotto di Perta, Priore della Congregazione dei Turchini, Flavia Petrelli, Ispettrice della Soprintendenza e lo stesso Soprintendente Prof. Nicola Spinosa che scrisse per il catalogo.
Ancora, Maria Capodanno, Commissario dell’Azienda di Soggiorno e Turismo, che si adoperò molto per la realizzazione dell’iniziativa e, infine, Sergio Zazzera, attento studioso della figura del Lantriceni e il Sindaco di allora Aniello Scotto.
Con uno sguardo retrospettivo, mi pare che si realizzò un’efficace collaborazione tra soggetti istituzionali diversi, tutti interessati a preservare l’opera e a riportarla nelle originarie condizioni.
Per questo, il restauro diede luogo alla parziale eliminazione di aggiunte successive che certamente compromettevano l’originaria configurazione plastico-cromatica.
Gli interventi principali, dopo un’indagine fotografica agli ultravioletti, furono l’eliminazione del colore rosso vermiglio del  cuscino sotto la testa del Cristo: colore che costituiva un’ impropria quanto fastidiosa ridipintura sovrapposta al colore originario, competitiva rispetto al colore rosso-sangue delle ferite  del Cristo e che certamente, nelle  intenzioni dell’autore, dovevano costituire le uniche “accensioni cromatiche” dell’intera scultura.
Furono eliminate alcune superfetazioni ottocentesche: i fiocchi ornamentali dello stesso cuscino che riacquistò l’originario bel colore celeste-lavagna.
La base sempre in legno, su cui poggia il corpo di Cristo, si rivelò ridipinta a imitazione di marmo nero con venature bianche. Cromatismo assolutamente estraneo alle intenzioni del Lantriceni che tuttora appesantisce l’intera configurazione scultorea.
Furono, in proposito, eseguiti due saggi-campione (uno dei quali adiacente alla iscrizione posta sul lato frontale della base: CARMINUS LANTRICENI SCULPTOR NEAPOLI A. D. 1728) che misero in chiara evidenza come, ad di sotto del finto marmo nero, vi fosse un diverso colore d’intonazione rossastra. Si trattava, in sostanza, del colore originario della base, messo nel restauro in minima parte allo scoperto, che imita la pietra rosso-porfireo, similmente alla cosiddetta “pietra dell’unzione”, consacrata non solo dalla tradizione iconografica, ma anche dal riscontro con la venerata pietra che si trova in Palestina.
Questa base attende ancora un restauro che allora non fu possibile completare per diverse ragioni. Oltretutto, il rosso-porfireo, schizzato, punteggiato di bianco, una volta scoperto per intero potrebbe mettere in evidenza quel motivo di ulteriore suggestione, ben rilevato da Federico Zeri per analoghi temi sacri. Mi riferisco alle lacrime della Madonna che avrebbero provocato nel cadere sulla pietra dell’unzione, quella punteggiatura di bianco sul rosso-porfireo. Simbolicamente esemplare, in tal senso, è il Compianto sul Cristo Morto del Mantegna, laddove si scorge la Madonna, posta a lato della pietra dell’unzione, che si asciuga le lacrime con un fazzoletto.
Concludendo questa prima riflessione, credo che gli ulteriori interventi di restauro debbano necessariamente mettersi in linea di continuità qualitativa con il primo intervento scientifico, operato da Mario Tatafiore alcuni decenni fa, evitando pseudorestauri e pseudorestauratori di turno. Magari ristabilendo un contatto con l’Accademia di Belle Arti e con il suo attuale Direttore, Aurora Spinosa.
Sarebbe opportuno, a mio avviso, per riprendere l’interesse, per non dire il passionale trasporto per questa bella scultura, mettere on-line l’intero catalogo del restauro, ormai diventato rarità bibliografica.
 * * * 
Una seconda riflessione attiene al rapporto tra la scultura del Lantriceni e il suo contesto storico, tenendo presente che ogni opera d’arte, in quanto prodotto storico, costituisce un particolare messaggio che tutti i fruitori dell’opera devono avere la possibilità di comprendere.
Personalmente, e credo che ciò valga per tutti, quando mi sono avvicinato al “messaggio” del Lantriceni, quando sono stato alla presenza di quest’opera di efficace e toccante iperrealismo, ne sono stato affascinato e coinvolto emotivamente.
A questa forte attrazione, per converso e quasi come una sorta di funzione compensatrice, ha fatto riscontro un ricordo altrettanto vivo nella mia memoria: le riflessioni critiche di Baudelaire sulla scultura.
Il grande critico, negli scritti sull’arte, definisce la scultura “noiosa” per diversi motivi tra cui, principalmente, il fatto che essa mostra troppe facce, troppi punti di vista rispetto a quello voluto dall’artista. Ritiene, inoltre, che essa sia complementare all’architettura o, nel caso di sculture dipinte (è il nostro caso) sia complementare alla pittura. Insomma, la scultura è secondaria rispetto alla pittura che, a suo avviso, è arte di ragionamento profondo.
Baudelaire, nei suoi “Scritti sull’Arte” (1859), esprime una profonda avversione per le sculture dipinte: “Quale mente, che non sia malata, può concepire senza orrore una pittura in rilievo…”
Un giudizio, meglio sarebbe dire una stroncatura, che  ho sentito la necessità di citare nel mio scritto sul catalogo, mettendolo in dubbio, congetturando che Baudelaire se avesse avuto l’opportunità di vedere il Cristo Morto del Lantriceni, sicuramente avrebbe cambiato la sua drastica opinione.
Ecco il bisogno di mettere l’opera in rapporto al contesto storico; cosa che dà piena ragione del particolare, toccante, emozionante realismo della scultura in esame.
Lantriceni col suo commovente realismo conferma quanto già il Concilio di Trento ribadiva per l’arte sacra, cioè la sua funzione didascalica ed educativa: il carattere narrativo del manufatto artistico doveva essere in stretto rapporto con l’esperienza religiosa dei fedeli.
Si trattava di un orientamento nettamente in opposizione a quello dei movimenti della Riforma che rinunciavano programmaticamente alla mediazione delle immagini sacre che potevano portare all’idolatria. Calvino, ancora più intransigente nella sua teologia riformatrice, sosteneva il sacerdozio universale dei fedeli che non avevano alcun bisogno d’immagini sacre, poiché non vi era distinzione tra i dotti e gli “indotti”.
San Bernardo, più realisticamente, considerava fondata tale distinzione: ai dotti il verbo è accessibile, agli altri (al popolo carnale, come lo definiva) era necessaria la mediazione delle immagini sacre.
I Gesuiti poi faranno propria la visione barocca favorendo un particolare carattere comunicativo, teatralizzante sia dell’architettura sia delle opere d’arte in essa contenute. Pensiamo al Baciccia e alle sue decorazioni ad affresco nella Chiesa del Gesù a Roma o ad Andrea del Pozzo, gesuita, pittore e architetto e alle sue stupefacenti rappresentazioni nella Chiesa di S. Ignazio a Roma.
Da qui la piena esaltazione delle immagini di arte sacra e del loro potere fortemente suggestivo. Esse devono esprimere la fede, il trionfo della fede, la gloria della Chiesa.
Lantriceni opera in questo contesto storico, in questo clima artistico. Il suo Cristo deposto è stato pensato e realizzato come strumento per ravvivare la fede, per rinforzare il sentimento di pietà religiosa.
Nel mio scritto sul catalogo del 1990, così descrivevo il Cristo del Lantriceni: “Ancora sanguinante, appena deposto dalla croce, la sconvolgente scultura della Congrega dei Turchini…”, mettendo in evidenza come il corpo inanimato di Cristo, appena calato e deposto, apparisse umanamente scomposto, disarticolato in modo realistico, quasi fosse un’impressionante immagine di cronaca di un feroce supplizio.
Non è il Cristo del Lantriceni un corpo ricomposto,  cioè restituito dalla pietà di chi lo ha schiodato dalla croce ad una apparenza, ad una positura più decorosa e serena, così come appare, ad esempio, nel celebre dipinto del Mantegna. Lantriceni, per converso, con impressionante realismo e drammatica potenza, ha creato un’opera che suscita pàthos, commozione, pietà e venerazione, devozione popolare. Parafrasando Alvar Gonzalés-Palacios potremmo parlare della costruzione di una sorprendente macchina cattolica, di rilevante emozione estetica.
Un’opera che nasce soprattutto quale elemento centrale della processione del Venerdì Santo, dei cosiddetti “Misteri”, che conserva esemplarmente tutta la spiritualità tardobarocca, patrimonio religioso e culturale della Congrega dei Turchini e di tutta la comunità procidana.
Oggi, per concludere questi brevi spunti di riflessione, il Cristo morto rappresenta l’eloquente e significativo punto d’incontro tra fertile creatività e prodigiosa tecnica del Lantriceni, artista ancora da scoprire, e la partecipata, sentita devozione dei procidani: un’accensione emotiva che si replica ogni volta che riguardiamo l’opera, ogni volta che assistiamo al rito del Venerdì Santo.
Nota di Maurizio Vitiello – Riceviamo e, volentieri, pubblichiamo una precisa e alta riflessione su “Il Cristo morto di Procida” di Franco Lista, architetto, docente universitario, conferenziere, artista, già Coordinatore degli Ispettori Tecnici del M.P.I. della Regione Campania, tra i maggiori intellettuali italiani.

 Il Cristo morto di Procida

di Franco Lista
 Venerdì 4 e Sabato 5 Aprile 2014, organizzato da Gabriele Scotto di Perta, Priore della Congregazione dei Turchini di Procida, si è tenuto un convegno sul Cristo morto di Carmine Lantriceni con interventi di Anna Iozzino, Elviro Langella, Franco Lista e Sergio Zazzera. Hanno moderato e condotto i lavori Giacomo Retaggio e Guglielmo Taliercio.
Il testo che segue è la registrazione dell’intervento di Franco Lista.
 Buona sera e benvenuti alla seconda parte del convegno. Intanto, vi rassicuro subito: non arrischierò alcuna sottile esegesi sulla settecentesca scultura in legno policromo del Cristo morto di Carmine Lantriceni sul quale è stata prodotta già una discreta letteratura storico-critica. Mi limiterò, come ho indicato nel titolo della mio intervento, a pochi spunti di riflessione.
Il primo spunto, necessariamente prioritario, attiene al fatto che quasi dopo un quarto di secolo ritorno a considerare l’opera del Lantriceni. Non si tratta di una riflessione nostalgica, anche se alcuni eccellenti autori (penso a Eugenio Turri) sostengono il “diritto alla nostalgia” che è, non solo nòstos e algia, ma anche condizione per scorrere criticamente e fruttuosamente la propria esperienza.
Nell’aprile del 1990, esattamente 24 anni fa, documentammo con un bel catalogo, da me curato, il primo restauro scientifico del Cristo. Promossi, per questo, una rara sinergia tra la Congregazione dei Turchini, l’Accademia di Belle Arti di Napoli, la Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici e l’Azienda di Soggiorno e Turismo di Ischia e Procida.
Utilizzando sia il mio ruolo di Ispettore per l’Istruzione Artistica, sia rapporti personali di cordiale amicizia, riuscii a mettere insieme, a formare una schiera di persone molto motivate sul destino conservativo della bella opera del Lantriceni: Gianni Pisani, allora Direttore dell’Accademia, Mario Tatafiore, Docente di Restauro, purtroppo poi prematuramente scomparso, Mimmo Jodice, Docente di Fotografia, Anna Caputi, Docente di Storia dell’arte, tutti dell’Accademia di Belle Arti e, ancora, Gabriele Castaldo, esperto di scultura lignea, Vincenzo Bergamene che curò in modo impeccabile la grafica del catalogo.
Inoltre, Gabriele Scotto di Perta, Priore della Congregazione dei Turchini, Flavia Petrelli, Ispettrice della Soprintendenza e lo stesso Soprintendente Prof. Nicola Spinosa che scrisse per il catalogo.
Ancora, Maria Capodanno, Commissario dell’Azienda di Soggiorno e Turismo, che si adoperò molto per la realizzazione dell’iniziativa e, infine, Sergio Zazzera, attento studioso della figura del Lantriceni e il Sindaco di allora Aniello Scotto.
Con uno sguardo retrospettivo, mi pare che si realizzò un’efficace collaborazione tra soggetti istituzionali diversi, tutti interessati a preservare l’opera e a riportarla nelle originarie condizioni.
Per questo, il restauro diede luogo alla parziale eliminazione di aggiunte successive che certamente compromettevano l’originaria configurazione plastico-cromatica.
Gli interventi principali, dopo un’indagine fotografica agli ultravioletti, furono l’eliminazione del colore rosso vermiglio del  cuscino sotto la testa del Cristo: colore che costituiva un’ impropria quanto fastidiosa ridipintura sovrapposta al colore originario, competitiva rispetto al colore rosso-sangue delle ferite  del Cristo e che certamente, nelle  intenzioni dell’autore, dovevano costituire le uniche “accensioni cromatiche” dell’intera scultura.
Furono eliminate alcune superfetazioni ottocentesche: i fiocchi ornamentali dello stesso cuscino che riacquistò l’originario bel colore celeste-lavagna.
La base sempre in legno, su cui poggia il corpo di Cristo, si rivelò ridipinta a imitazione di marmo nero con venature bianche. Cromatismo assolutamente estraneo alle intenzioni del Lantriceni che tuttora appesantisce l’intera configurazione scultorea.
Furono, in proposito, eseguiti due saggi-campione (uno dei quali adiacente alla iscrizione posta sul lato frontale della base: CARMINUS LANTRICENI SCULPTOR NEAPOLI A. D. 1728) che misero in chiara evidenza come, ad di sotto del finto marmo nero, vi fosse un diverso colore d’intonazione rossastra. Si trattava, in sostanza, del colore originario della base, messo nel restauro in minima parte allo scoperto, che imita la pietra rosso-porfireo, similmente alla cosiddetta “pietra dell’unzione”, consacrata non solo dalla tradizione iconografica, ma anche dal riscontro con la venerata pietra che si trova in Palestina.
Questa base attende ancora un restauro che allora non fu possibile completare per diverse ragioni. Oltretutto, il rosso-porfireo, schizzato, punteggiato di bianco, una volta scoperto per intero potrebbe mettere in evidenza quel motivo di ulteriore suggestione, ben rilevato da Federico Zeri per analoghi temi sacri. Mi riferisco alle lacrime della Madonna che avrebbero provocato nel cadere sulla pietra dell’unzione, quella punteggiatura di bianco sul rosso-porfireo. Simbolicamente esemplare, in tal senso, è il Compianto sul Cristo Morto del Mantegna, laddove si scorge la Madonna, posta a lato della pietra dell’unzione, che si asciuga le lacrime con un fazzoletto.
Concludendo questa prima riflessione, credo che gli ulteriori interventi di restauro debbano necessariamente mettersi in linea di continuità qualitativa con il primo intervento scientifico, operato da Mario Tatafiore alcuni decenni fa, evitando pseudorestauri e pseudorestauratori di turno. Magari ristabilendo un contatto con l’Accademia di Belle Arti e con il suo attuale Direttore, Aurora Spinosa.
Sarebbe opportuno, a mio avviso, per riprendere l’interesse, per non dire il passionale trasporto per questa bella scultura, mettere on-line l’intero catalogo del restauro, ormai diventato rarità bibliografica.
 * * *
 Una seconda riflessione attiene al rapporto tra la scultura del Lantriceni e il suo contesto storico, tenendo presente che ogni opera d’arte, in quanto prodotto storico, costituisce un particolare messaggio che tutti i fruitori dell’opera devono avere la possibilità di comprendere.
Personalmente, e credo che ciò valga per tutti, quando mi sono avvicinato al “messaggio” del Lantriceni, quando sono stato alla presenza di quest’opera di efficace e toccante iperrealismo, ne sono stato affascinato e coinvolto emotivamente.
A questa forte attrazione, per converso e quasi come una sorta di funzione compensatrice, ha fatto riscontro un ricordo altrettanto vivo nella mia memoria: le riflessioni critiche di Baudelaire sulla scultura.
Il grande critico, negli scritti sull’arte, definisce la scultura “noiosa” per diversi motivi tra cui, principalmente, il fatto che essa mostra troppe facce, troppi punti di vista rispetto a quello voluto dall’artista. Ritiene, inoltre, che essa sia complementare all’architettura o, nel caso di sculture dipinte (è il nostro caso) sia complementare alla pittura. Insomma, la scultura è secondaria rispetto alla pittura che, a suo avviso, è arte di ragionamento profondo.
Baudelaire, nei suoi “Scritti sull’Arte” (1859), esprime una profonda avversione per le sculture dipinte: “Quale mente, che non sia malata, può concepire senza orrore una pittura in rilievo…”
Un giudizio, meglio sarebbe dire una stroncatura, che  ho sentito la necessità di citare nel mio scritto sul catalogo, mettendolo in dubbio, congetturando che Baudelaire se avesse avuto l’opportunità di vedere il Cristo Morto del Lantriceni, sicuramente avrebbe cambiato la sua drastica opinione.
Ecco il bisogno di mettere l’opera in rapporto al contesto storico; cosa che dà piena ragione del particolare, toccante, emozionante realismo della scultura in esame.
Lantriceni col suo commovente realismo conferma quanto già il Concilio di Trento ribadiva per l’arte sacra, cioè la sua funzione didascalica ed educativa: il carattere narrativo del manufatto artistico doveva essere in stretto rapporto con l’esperienza religiosa dei fedeli.
Si trattava di un orientamento nettamente in opposizione a quello dei movimenti della Riforma che rinunciavano programmaticamente alla mediazione delle immagini sacre che potevano portare all’idolatria. Calvino, ancora più intransigente nella sua teologia riformatrice, sosteneva il sacerdozio universale dei fedeli che non avevano alcun bisogno d’immagini sacre, poiché non vi era distinzione tra i dotti e gli “indotti”.
San Bernardo, più realisticamente, considerava fondata tale distinzione: ai dotti il verbo è accessibile, agli altri (al popolo carnale, come lo definiva) era necessaria la mediazione delle immagini sacre.
I Gesuiti poi faranno propria la visione barocca favorendo un particolare carattere comunicativo, teatralizzante sia dell’architettura sia delle opere d’arte in essa contenute. Pensiamo al Baciccia e alle sue decorazioni ad affresco nella Chiesa del Gesù a Roma o ad Andrea del Pozzo, gesuita, pittore e architetto e alle sue stupefacenti rappresentazioni nella Chiesa di S. Ignazio a Roma.
Da qui la piena esaltazione delle immagini di arte sacra e del loro potere fortemente suggestivo. Esse devono esprimere la fede, il trionfo della fede, la gloria della Chiesa.
Lantriceni opera in questo contesto storico, in questo clima artistico. Il suo Cristo deposto è stato pensato e realizzato come strumento per ravvivare la fede, per rinforzare il sentimento di pietà religiosa.
Nel mio scritto sul catalogo del 1990, così descrivevo il Cristo del Lantriceni: “Ancora sanguinante, appena deposto dalla croce, la sconvolgente scultura della Congrega dei Turchini…”, mettendo in evidenza come il corpo inanimato di Cristo, appena calato e deposto, apparisse umanamente scomposto, disarticolato in modo realistico, quasi fosse un’impressionante immagine di cronaca di un feroce supplizio.
Non è il Cristo del Lantriceni un corpo ricomposto,  cioè restituito dalla pietà di chi lo ha schiodato dalla croce ad una apparenza, ad una positura più decorosa e serena, così come appare, ad esempio, nel celebre dipinto del Mantegna. Lantriceni, per converso, con impressionante realismo e drammatica potenza, ha creato un'opera che suscita pàthos, commozione, pietà e venerazione, devozione popolare. Parafrasando Alvar Gonzalés-Palacios potremmo parlare della costruzione di una sorprendente macchina cattolica, di rilevante emozione estetica.
Un’opera che nasce soprattutto quale elemento centrale della processione del Venerdì Santo, dei cosiddetti “Misteri”, che conserva esemplarmente tutta la spiritualità tardobarocca, patrimonio religioso e culturale della Congrega dei Turchini e di tutta la comunità procidana.
Oggi, per concludere questi brevi spunti di riflessione, il Cristo morto rappresenta l’eloquente e significativo punto d’incontro tra fertile creatività e prodigiosa tecnica del Lantriceni, artista ancora da scoprire, e la partecipata, sentita devozione dei procidani: un’accensione emotiva che si replica ogni volta che riguardiamo l’opera, ogni volta che assistiamo al rito del Venerdì Santo.