pubblicato martedì 14 maggio 2013
Scrivere liste sulle cose da fare è un’attività rassicurante e benefica. Ciò che nel pensiero si muove con ansioso e incontinente disordine, qui si dispone in placida sequenza di parole, ferme e buone sopra un pezzo di carta. Dopo, ci si sente liberi di pensare ad altro, quasi che le cose elencate, rese docili dal nome, smettessero di pretendere soddisfazione.
Le liste, anche quelle inservibili ai fini pratici, sono utili comunque, in quanto depositi di ansia disinnescata, e da loro non ci si può separare perché non hanno scadenza. Non come le umili liste della spesa quotidiana – quelle qui esposte – le quali, essendo le uniche ad avere un fine immediatamente pratico che si esaurisce in giornata, una volta fatto il loro dovere, non sono che stupidi pezzi di carta di cui disfarsi. Conservarle sarebbe stato ridicolo o perlomeno strano, se, nel mettere ordine fra certe carte che si erano ammucchiate dopo vari svuotamenti di tasche, non avessi trovato una serie di foglietti spiegazzati, le liste della spesa, appunto, e vedendoci scritto il più delle volte: giornale sigarette– sigarette insalata enalotto - bancomat giornale pane -, non fossi stata presa da un intenerimento divertito di fronte alla comica modestia di quegli elenchi, domandandomi inoltre come sia possibile mettersi a scrivere cose così facili da ricordare. Il fatto è che, scrivendo quelle liste, io disegnavo la mappa del mattino.
Esco infatti con la mia mappa in tasca e, attrezzata di intenzioni e di mete, attraverso libera e con passi freschi la mutevole larghezza del mattino. A volte intenzioni e mete sono scarse, ho solo due cose da comprare, e a guardare la lista mi deludo, dato che: lista corta, giro breve - giro breve, giorno triste. Niente infatti è più piacevole che perdere tempo con la scusa di dover fare qualcosa. Se invece le liste sono ricche e complesse, ecco i giorni felici. Ma è ciò che la mappa non dice, quella zona di mezzo, il vuoto che c’è tra un nome e l’altro, tra le diverse mete, e che dovrò riempire con i miei passi, ecco il vero fine della lista: far muovere le mie intenzioni nel magnifico territorio del caso, che con le sue deviazioni ed eccessi può produrre miracoli di gioia. In questi poveri foglietti ho riconosciuto sia questi miracoli sia le tante e imprevedibili temperature dei miei mattini. Come ci si può disfare di simili testimoni? Ma a conservarli mi ha convinto anche la loro fisica singolarità, prodotta, ancora una volta, dall’incontro dell’intenzione e del caso, grazie al quale ognuno di essi può vantare qualcosa che l’altro non ha: un certo colore e una certa misura della carta, il modo dello strappo – impaziente o meticoloso–, le sfumature dei diversi inchiostri, la scrittura a volte agitata e a volte piana, spesso illeggibile. Pezzi unici per giorni unici che sembrano uguali ma non lo sono, come sempre accade quando una materia, qualunque sia, accoglie i nostri gesti provvisori e nel trattenerli se ne impressiona rendendo visibile l’unicità di questo incontro, dove la volontà astratta si solidifica e la materia inerte si anima. Tutto ciò che è generato da questa unione possiede una tale convincente capacità di esistere che ci obbliga a guardarlo ammirati.
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