Manovra: che succede col deficit oltre il 2%?

Lo spiega il professor Marcello Messori, docente di Economia alla Luiss e direttore della 'Luiss School of European Political Economy'
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28 settembre 2018 - Mentre la maggioranza piega le resistenze del ministro dell’Economia Giovanni Tria e si accorda per una manovra in deficit, il mondo politico-economico inizia a chiedersi quale potrebbe essere la reazione dei mercati internazionali ad uno sforamento italiano oltre il 2%.
Cosa accade se si supera questo limite? “Se si arrivasse davvero a un 2,4-2,5% questo sarebbe un fattore di profonda instabilità per la nostra economia” spiega all’AdnKronos il professor Marcello Messori, docente di Economia alla Luiss e direttore della ‘Luiss School of European Political Economy’. “Il 2,4-2,5% è il valore che avevo calcolato se fossero stati attuati tutti i punti del programma, seppure in modo graduale e moderato, senza alcun intervento di riduzione di altre spese. Quindi senza far scattare le clausole di salvaguardia aumentando l’Iva, e quindi la pressione fiscale, e senza alcuna attenuazione del trasferimento degli 80 euro dei governi precedenti”.

BILANCIO – Si tratta di una percentuale che, “prima ancora di contrastare con le regole europee – dice l’economista -, contrasta con gli obiettivi che almeno una delle componenti della coalizione ha sempre affermato: cioè, che la legge di bilancio avrebbe dovuto garantire uno sviluppo sostenibile ed equilibrato del nostro Paese, in grado di rilanciare gli investimenti e di attenuare le disuguaglianze in termini di distribuzione del reddito e della ricchezza, per ridurre le aree di povertà”.
Il 2,4%, prosegue il direttore della ‘Luiss School of European Political Economy’, “renderebbe difficilmente sostenibile in un’ottica di medio periodo il debito pubblico italiano. E questo determinerebbe un aumento degli spread e quindi dei tassi di interesse”; fatto che “indebolisce il settore bancario che detiene molti titoli del debito pubblico nei propri bilanci” perché, con tassi di interesse più alti, diminuisce il prezzo dei titoli stessi e le banche potrebbero avere problemi nel rispettare le regole patrimoniali internazionali, “trovandosi davanti all’alternativa: o ricapitalizziamo o riduciamo il credito”. Ma, continua Messori, “visto che ricapitalizzare in questo momento è difficile, ci sarà una riduzione dei finanziamenti all’economia reale. Quindi il denaro costerà più caro e ci sarà meno liquidità e questo creerà molta incertezza che si propagherà al settore reale e si ridurranno gli investimenti. Proprio l’opposto di quanto si persegue a parole”.
SPESA E CRESCITA – “L’idea che aumentando la spesa pubblica si aumenti automaticamente il tasso di crescita dell’economia è vero se, e soltanto se, l’aumento della spesa pubblica è efficiente e non ha conseguenze sul resto dell’economia”. Secondo il professore, invece, “queste conseguenze ci sarebbero e sarebbero negative”. E rimarca: “Il ragionamento per il quale sia sufficiente aumentare la spesa pubblica per far crescere l’economia, purtroppo, non è così. Dipende molto dalla qualità della spesa”.
Inoltre, “anche se riuscissimo ad effettuare un’allocazione efficiente della spesa pubblica, innanzitutto ci sarebbe uno sfasamento temporale perché, prima che produca effetti, ce ne sarebbe uno immediato di instabilità – afferma Messori -. C’è quindi un rischio serio che gli effetti negativi creino tali e tanti problemi da impedire la possibilità di aspettarsi effetti positivi nel medio periodo”.
UNIONE EUROPEA – E conclude: “E’ tutto molto più complicato di quanto non faccia presumere l’automatismo ‘più spesa più crescita’”. Ma “non è che dobbiamo non eccedere la soglia del 2% perché ce lo chiede l’Europa – sottolinea il docente -, non la dobbiamo infrangere perché non è compatibile con la stabilità della nostra economia. E rendere più instabile un’economia significa punire le fasce più deboli della popolazione”.
In collaborazione con Adnkronos