Sono
una sociologa urbana, vivo da trenta anni nell'ex quartiere operaio di Testaccio
a Roma, una zona ricca di memoria, storia e contemporaneità. Sono tante le
narrazioni che si sono incontrate - e che prima o poi si vanno ad incrociare -
in questo luogo dove sorge l'ottavo colle di Roma, il Monte dei Cocci o Monte
Testaccio, la prima discarica controllata di Roma
imperiale.
Il
Monte dei Cocci è nato e cresciuto lungo il corso di tre secoli tra il I e il
III d.C. dall'accumularsi di cocci di anfore d'olio scaricate al Porto
dell'Emporio e provenienti dalla Spagna. Il Monte dà nome al rione,
testae in latino significa infatti "coccio".
Si
tratta allo stesso tempo di un monumento naturale e di un documento, perché
attraverso saggi archeologici, tuttora attivi dalla fine dell'Ottocento a causa
della vastità dell'area ancora da esaminare, è stato possibile ricostruire parte
della storia commerciale dell'Impero romano.
Un
sito unico al mondo ma incredibilmente chiuso e lasciato all'incuria
più totale. Uno stato delle cose che ne fissa la percezione, complice anche la
particolarità del rione Testaccio, in uno spazio senza tempo.
La
sua inaccessibilità è un oltraggio quindi non solo alla memoria, ma al
piacere di poter osservare dalla sua sommità l'altra Roma, quella del lavoro e
della fatica, quella del panorama industriale della zona Ostiense e Marconi,
dell'ex Mattatoio e del Campo Boario.
Chiediamo
quindi che il Comune di Roma e la Sovrintendenza Archeologica del Lazio indicano
un bando pubblico per l'assegnazione - alle realtà associative del
territorio - della gestione di attività per la promozione turistica di questo
sito archeologico, creando allo stesso tempo occasione di impiego e
valorizzazione della cultura.
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