Il genetista Giuseppe Novelli, dell'Università di Tor Vergata. Imagoeconomica

 

  • Mentre si accelera con le vaccinazioni e gran parte d’Italia è in lockdown una ricerca internazionale a cui partecipa l’Università di Tor Vergata svela il segreto degli immuni.
  • Un difetto genetico alla base della resistenza.
  • Il genetista Novelli a Business Insider: «L’interferone potrebbe avere un ruolo fondamentale».

Vivono, mangiano e dormono insieme a familiari malati. Lavorano ogni giorno a stretto contatto con persone positive. E non vengono contagiati.  E’ l’incredibile fortuna degli “immuni”, i cosiddetti “resistenti” al  COVID-19, protetti da una barriera invisibile che non si ammalano, né si infettano.

 

Come è possibile? E’ proprio quello che sta cercando di capire uno studio internazionale condotto dal genetista italiano Giuseppe Novelli, direttore del Laboratorio di Genetica Medica dell’Università di Roma Tor Vergata in collaborazione con 250 laboratori mondiali coordinati dalla Rockefeller University di New York.

La posta in gioco è alta, spiega Novelli a Business  Insider:

«Vogliamo fare chiarezza  su come questo virus operi e che tipo di risposta immunitaria inneschi per sviluppare terapie più efficaci. E’ l’ultimo, ma decisivo passo che la scienza può compiere».

La fortuna (e la sfortuna) scritta nei geni  

Mentre prosegue il drammatico corso di una pandemia che, secondo i dati diffusi dall’Health Emergency Dashbord dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha prodotto 124 milioni di casi confermati, circa 2.734.373 vittime,  e che vede l’Italia al settimo posto per numero di contagi (3.419.616) e al quinto per numero di decessi (105.879), c’è un dato  che da mesi toglie il sonno agli scienziati: perché non tutti reagiscono al coronavirus allo stesso modo? Perché alcuni si ammalano e  necessitano di ricovero e ventilazione meccanica invasiva, mentre altri sono del tutto asintomatici?

« Il nostro studio è nato proprio  dall’insolita risposta che  presentano alcuni individui al SARS-CoV-2 – rivela Novelli  – Ci sono dei fattori di rischio che si associano ad un decorso clinico più severo, come l’età e la presenza di ulteriori comorbidità, tra cui il diabete o l’insufficienza renale, ma da soli non bastano a giustificare questa ampia variabilità nella risposta clinica».

Quindi?

«Con il tempo ci siamo resi che alcuni individui, nonostante fossero  fortemente esposti al contagio, non soltanto non sviluppavano alcuna sintomatologia, ma risultano negativi sia alla ricerca del virus mediante tampone nasofaringeo, che degli anticorpi su siero. Come se fossero naturalmente immuni all’infezione».

Bingo.

Superdotati contro il virus

E poi?

«Il passo successivo è stato reclutare soggetti di entrambi i sessi e  di qualsiasi età risultati apparentemente immuni al virus, che hanno avuto un contatto ravvicinato e prolungato con familiari infetti  senza mai positivizzarsi. Per chi rientra nei criteri di selezione basta un prelievo di sangue, da cui poi è estratto il DNA. Grazie alle moderne tecniche di sequenziamento è possibile leggere la nostra “libreria genetica” lettera per lettera ed individuare varianti del DNA che possano conferire questa particolare immunità alle infezioni».

E proprio l’analisi di quella “libreria genetica” ha spalancato l’ipotesi tuttora al vaglio: un malfunzionamento genetico potrebbe rendere alcuni individui predisposti a produrre un surplus di interferone e, quindi,  resistenti al contagio da virus SARS-CoV-2.

«Gli interferoni di tipo I e III sono le molecole chiave della risposta immunitaria» conferma lo scienziato italiano «quando le nostre cellule entrano in contatto con un virus, si attivano dei meccanismi di allerta che portano alla produzione di interferone che funge da “molecola segnale”, si lega specifici recettori cellulari ed è in grado di attivare la risposta antivirale. Questo avviene principalmente grazie a geni specifici, i cosiddetti ISGs (Interferon Stimulated Genes)».  

A mettere i ricercatori sulle giuste tracce è stato, paradossalmente, lo studio sui decorsi più severi di  Covid 19, pubblicato lo scorso ottobre sulla rivista “Science”,  secondo cui il 15% delle mortalità  sarebbe  legato ad un difetto genetico che, in questo caso specifico, impedisce o limita  la produzione degli interferoni di tipo I (IFN). Immunità ed estrema vulnerabilità, secondo gli autori dello studio, sono i due lati della stessa medaglia.

«Così come esistono varianti in alcuni geni che possono portare allo sviluppo di un quadro molto più severo,  esistono alterazioni genetiche in grado di conferire una sorta di protezione alle infezioni».   

Dagli immuni speranze di guarigione dei malati

Lo studio internazionale ha un obiettivo  ambizioso: sviluppare farmaci monoclonali e antivirali più efficaci contro il coronavirus.  Ma la strada è lunga.

«Ad oggi ancora non esiste una terapia standardizzata e di comprovata efficacia per il COVID-19 » sottolinea amaro Novelli.  «Dal punto divista farmacologico si  sono tentate diverse strade, come ad esempio l’idrossiclorochina o il Lopinavir/ritonavir, che, però, non si sono dimostrate efficaci nel ridurre il tasso di mortalità o di necessità di ventilazione invasiva. Identificare con precisione i meccanismi di resistenza  permetterebbe di aprire l’orizzonte a nuove strategie terapeutiche».

Una cosa è certa: l’immunità naturale non è una novità. La storia ci fornisce numerosi esempi di meccanismi di resistenza su base genetica alle infezioni virali. Un esempio tra i più discussi e conosciuti è quello del recettore CCR5 per il virus dell’HIV: alcuni individui, portatori di una variante non funzionante del recettore CCR5, risultano naturalmente resistenti all’infezione. Un altro esempio è quello del gene FUT2. Mutazioni inattivanti questo gene conferiscono una resistenza ad i  più comuni virus  responsabili della gastroenterite acuta. Capire questi meccanismi è di fondamentale importanza.