sabato 7 settembre 2019

Riforma Bonisoli: pasticcione estivo senza discussione parlamentare. A rischio autonomie e piccoli musei

Riforma Bonisoli: pasticcione estivo senza discussione parlamentare. A rischio autonomie e piccoli musei



 Il punto sulla riforma del Ministero dei Beni Culturali dopo i decreti di Ferragosto.
Se c’è un merito di cui occorre dar atto al ministro dei beni culturali Alberto Bonisoli, è quello d’aver messo d’accordo tutti sulla sua riforma dei beni culturali: tutti i partiti, dal Pd alla Lega, da Potere al Popolo a Fratelli d’Italia, da Alternativa Popolare fino anche ad esponenti dello stesso partito del ministro (il Movimento 5 Stelle), e poi ancora sindaci, amministratori locali, direttori di musei, giornalisti, sindacati, comitati, associazioni. Addirittura, Bonisoli è riuscito in un compito ai limiti del possibile, ovvero metter d’accordo chi, come Tomaso Montanari, era fermamente contrario alla riforma Franceschini del 2014 e chi invece, come Giuliano Volpe, ne era tra i più convinti assertori. Il problema è che sono sì tutti d’accordo, ma nell’affermare che la riforma dei beni culturali immaginata da Bonisoli è un pasticcio, per limitarsi a utilizzare l’eloquente e generoso eufemismo che il summenzionato Volpe ha adoperato in un suo articolo pubblicato sull’Huffington Post (peraltro il 16 di giugno, molto prima che la riforma diventasse operativa).
E non si tratta solo di un problema di contenuti, ma anche di metodo: la riforma è stata approvata in fretta e furia tramite decreti (quindi senza che ci sia stata una discussione parlamentare, come sarebbe il caso accadesse quando si progettano misure che rischiano d’avere un impatto duraturo su di un settore complesso come è quello dei beni culturali), in tempi rapidissimi (il dpcm della riforma è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale ai primi d’agosto, e i decreti attuativi sono stati firmati dal ministro tutti quanti la settimana di Ferragosto) e a pochi giorni dall’apertura ufficiale d’una crisi di governo, quasi che la velocità con cui la riforma è stata approvata sia il sintomo più evidente della necessità, da una parte, di conseguire un risultato concreto, e dall’altra (almeno stando all’interpretazione di Sergio Rizzo di Repubblica) di portare avanti un disegno preciso senza che, con l’apertura della crisi di governo, si badasse più all’ingombro della Lega che premeva contro la centralizzazione. Una simile congiuntura politica avrebbe dovuto ispirare prudenza: adesso però ci ritroviamo con una riforma osteggiata dai più, che rischia di riportarci a un anacronistico centralismo, di sclerotizzare e ingolfare i processi, di minare l’autonomia dei musei grandi (e rendere più complicato il lavoro di chi li deve dirigere), di far cadere una mannaia su quelli piccoli, di rallentare ulteriormente la ricostruzione delle aree dell’Italia centrale colpite dal sisma. Tutto questo in un opprimente clima d’incertezza e a soli cinque anni dall’ultima riforma.
Per comprendere le ragioni di tanti attacchi e tante critiche è necessario esaminare punto per punto la riforma Bonisoli almeno nei suoi aspetti di più rilevante novità, facendo confronti con la situazione precedente. Si può partire dall’abolizione dei poli museali regionali e dall’istituzione delle direzioni territoriali delle reti museali (si potrebbe dire che la situazione viene complicata addirittura a partire dal nome del nuovo istituto): in breve, le direzioni territoriali avranno competenze su territorî molto più vasti di quelli degli ormai ex poli museali regionali, identificati sulla base delle singole regioni, mentre invece con la controriforma Bonisoli ci troveremo con dieci grandi reti in parte interregionali (Liguria-Piemonte, Lombardia-Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Abruzzo-Molise, Campania, Puglia-Basilicata, Calabria, Sardegna). Sul perché l’ampliamento degli ex poli sia una misura rischiosa, è intervenuta con precisione la sezione italiana dell’ICOM - International Council of Museums: in una nota diffusa il 23 agosto, ICOM Italia ritiene “un errore aver previsto direzioni uniche per più regioni”, per il fatto che “l’estensione delle competenze degli ex poli museali a territorî così vasti (particolarmente abnorme il caso Lombardia-Veneto)” potrebbe “rendere meno efficace l’azione di coordinamento dei musei e, soprattutto, l’impulso all’integrazione delle politiche culturali fra i diversi attori pubblici e privati e la promozione di reti di musei (e altre istituzioni come archivi e biblioteche) di diversa proprietà, generalmente operanti su scala regionale o subregionale”.
Inoltre, sempre in relazione agli accorpamenti, su queste pagine chi scrive ha già avuto modo di sottolineare come certe decisioni (il Cenacolo Vinciano che viene rimosso dal polo museale lombardo e unito alla Pinacoteca di Brera, la Galleria Franchetti di Venezia che lascia il polo veneto per entrare nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia, la fusione tra Uffizi, Galleria dell’Accademia e Museo di San Marco) potrebbero avere effetti devastanti sui piccoli musei, e l’aumento del fondo di solidarietà, che passa dal 20% al 25%, non è che un palliativo insufficiente a riequilibrare la situazione. Si prenda, giusto a titolo d’esempio, la situazione dei musei lombardi: prima della riforma Bonisoli, il Cenacolo Vinciano, con i suoi quasi quattro milioni di euro l’anno (un po’ meno nel 2018, quando sono stati tre milioni e mezzo), dava ossigeno agli altri musei del polo, dacché la riforma Franceschini prevedeva che i proventi da bigliettazione dei singoli musei dell’istituto (tolto il 20% da destinare al fondo di solidarietà) fossero ridistribuiti su tutti i musei afferenti al polo. Gli introiti del Cenacolo venivano per la maggior parte suddivisi tra i varî musei, mentre col passaggio a Brera rimarranno quasi tutti all’istituto autonomo.
Ancora sui musei, auspicio del ministro Bonisoli è sempre stato quello di abolire i consigli d’amministrazione: proposito che, a meno d’improbabili stravolgimenti dell’ultim’ora, verrà puntualmente messo in atto. Si tratta di una mossa che inciderà sull’autonomia dei musei, malgrado il MiBAC abbia tentato, nei giorni scorsi, una difesa della riforma con una nota dell’ufficio stampa in cui si asseriva che “i cda dei musei sono stati aboliti per semplificare, in quanto i loro pareri venivano comunque già approvati dalla direzione centrale”. Vale la pena ricordare quali fossero le funzioni dei cda, previste dalla riforma Franceschini e regolate dal decreto ministeriale del 23/12/2014, “Organizzazione e funzionamento dei musei statali”: determinare e programmare le linee di ricerca e gli indirizzi tecnici dell’attività del museo (in coerenza con le direttive e gli altri atti di indirizzi del ministero), e in particolare adottare lo statuto del museo (dopo aver acquisito l’assenso del Comitato scientifico e del Collegio dei revisori dei conti), approvare la carta dei servizi, il bilancio di previsione (con relative variazioni), il conto consuntivo, gli strumenti di verifica dei servizi affidati in concessione rispetto ai progetti di valorizzazione predisposti dal direttore del museo, esprimersi sulle questioni sottoposte dal direttore del museo. Tutte queste attività saranno adesso in capo al direttore del museo, che dovrà predisporre bilanci e documenti contabili, da inviare alla direzione centrale per l’approvazione: i direttori saranno pertanto privati di un organo che esercita importanti funzioni di sostegno e controllo (anche qui non sembra essere sufficiente l’affiancamento, annunciato nella nota di cui sopra, di un dirigente amministrativo al direttore per coadiuvarlo nello sbrigare queste incombenze). A questo punto, tanto vale abolire l’autonomia finanziaria dei musei e lasciar loro soltanto l’autonomia scientifica.
Alberto Bonisoli
Alberto Bonisoli
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