domenica 5 giugno 2011

È reato filmare le effusioni tra ragazzi






Osserva
1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso - Con la sentenza qui impugnata, la Corte d'appello ha confermato la condanna pronunciata in primo grado nei confronti di L.F.A. , odierno ricorrente, ritenuto responsabile della violazione dell'art. 600 quater c.p..

L'accusa è scaturita dal fatto di avere il L.F. , realizzato, insieme ad altri due amici, delle riprese filmate di effusioni amorose a sfondo sessuale tra una amica minorenne ed il ragazzo che ella frequentava all'epoca. In altre parole, i fatti si sono svolti - nell'ambito di rapporti amicali tra adolescenti - nella casa abitata da L.F. , dove la minore si era recata in compagnia del giovane che ella frequentava da circa un mese. Secondo l'accusa, L.F. ed altri due amici, (T. e C. , anch'essi condannati), dopo aver marinato la scuola, insieme ad un'altra loro compagna - odierna parte lesa - ed al ragazzo di questa - si erano recati a casa del L.F. . Ivi, di lì a poco, i tre imputati avevano dichiarato che sarebbero usciti ma avevano invitato la ragazza ed il suo “partner" a "mettersi a proprio agio" come e dove volevano, inclusa la camera da letto. In realtà, in quella stanza, era stata predisposta una telecamera che è stata avviata prima che i tre uscissero. Al rientro, L.F. e gli amici avevano visionato le immagini (riproducenti scene di effusioni e toccamenti trai due ragazzi solo in parte denudati) e le avevano, in seguito, mostrate ad altri due ragazzi che hanno deposto sul punto. Quasi un anno dopo, anche il nuovo ragazzo della parte lesa (che nel frattempo era stata all'estero per un corso di studi), aveva occasionalmente visto il filmato e lo aveva riferito alla ragazza che, parlatone con L.F. e gli altri due autori delle riprese, aveva ricevuto conferma del fatto sia pure in un'ottica minimizzante.

La ripresa non è mai stata visionata dalla p.o. e non è presente in atti per essere andata distrutta dalla stessa e dal ragazzo dell'epoca. La ragazza, a seguito dell'episodio, era entrata in crisi, accusando disturbi psichici e nell'alimentazione sì da finire per raccontare la cosa ai propri genitori e decidersi a sporgere denuncia.

Inizialmente, era stato promossa l'accusa di violazione dell'art. 615 bis, il rinvio a giudizio era stato chiesto ed ottenuto con diversa imputazione (art. 600 ter) ma, poi, il Tribunale aveva riqualificato i fatti come violazione dell'art. 600 quater la Corte d'appello ha confermato.

Avverso tale decisione, l'imputato ha proposto ricorso, tramite i propri difensori, deducendo:

1) violazione di legge (art. 606 lett. b) c.p.p. in rei. all'art. 600 quater c.p.). Il nocciolo della tesi difensiva è che, nella specie, non sia configurabile la violazione dell'art. 609 quater (da intendersi - ratione temporis - nella formulazione antecedente la riforma apportata a tale norma dalla L. 38/06) per il semplice motivo che tale disposizione è da intendersi (al pari dell'art. 648 c.p. rispetto al furto), come destinata a punire chi non abbia concorso a realizzare il reato presupposto che, nella specie, è quello di cui all'art. 600 ter - precedente formulazione - vale a dire la realizzazione del materiale pornografico.

D'altro canto, proprio, rispetto a tale fattispecie (quando si usava il termine "sfruttare", e non quello più ampio di "utilizzare" poi sostituito), la sentenza delle S.U. n. 13 del 2000, consente di ritenere che essa non ricomprendesse quelle condotte che, pur inerenti la produzione di materiale pornografico minorile, non fossero idonee a determinarne la fruizione da parte di altri (vale a dire il c.d. materiale "prodotto in casa"). L'affermazione, sostenuta anche in dottrina, si basa sulla considerazione che la L. 286/98, nell'introdurre le nuove disposizioni volte a reprimere il c.d. fenomeno della pedo-pornografia, si riprometteva di tutelare il minore contro pericoli di mercificazione del suo corpo e suo inserimento nel circuito perverso della pedofilia. Non a caso la parola "sfruttamento" stava a rappresentare la

strumentalizzazione del minore. L'innovazione ampliativa apportata dalla L. n. 38 non rileva in questa sede visto che i fatti sono stati posti in essere sotto la vigenza della precedente disposizione.

Dal momento che, nel caso in esame, il L.F. aveva egli stesso realizzato le riprese per un uso del tutto circoscritto (mostrato, complessivamente a tre persone), avrebbe dovuto rispondere della violazione dell'art. 600 ter e non della condotta successiva (detenzione del materiale pornografico) di cui all'art. 609 quater, visto che tale disposizione - come affermato anche dalla S.C. (sez III, 20.11.07 n. 1814) - non annovera, tra i soggetti attivi, coloro che hanno prodotto il materiale in quanto, in relazione ad essi la detenzione costituisce un post factum non punibile".

Il ricorrente conclude invocando l'annullamento della sentenza impugnata.

2. Motivi della decisione - Il ricorso è infondato.

Esso, infatti, tenta di risolvere in termini suggestivi, ma inesatti, il delicato tema dei rapporti tra l'art. 600 ter e l'art. 600 quater sul quale, però, la giurisprudenza di questa S.C. è già intervenuta più volte in termini abbastanza chiari e che devono essere qui ribaditi.

Detto in estrema sintesi, l'argomento del ricorrente - speculando sulla lettura fornita dalla giurisprudenza di questa S.C. a proposito dell'ari 600 ter - elabora il teorema secondo cui, visto che si deve escludere (come del resto affermato anche dai giudici di merito) la riconducibilità del caso in esame alla previsione dell'art. 600 ter (per difetto di una produzione 0 diffusione del materiale pornografico su vasta scala), non sarebbe neppure corretto far rientrare la fattispecie concreta nell'alveo dell'art. 600 quater perché quest'ultima norma, contenendo una clausola di riserva, rispetto all'art. 600 ter, non potrebbe soccorrere per punire una condotta che, invece, in sé e per sé, corrisponde a quella di cui all'art. 600 ter. In altri termini, così come il detentore di mercé rubata va esente da pena per la ricettazione se è stato egli stesso l'autore del furto, analogamente, nella specie, il L.F. , non potrebbe essere punito perché la sua condotta è stata inequivocabilmente quella di avere prodotto e diffuso il materiale pornografico, vale dire di avere integrato la condotta descritta nell'art. 600 ter 1 e 3 comma, per la quale, però, non sarebbe punibile perché questa stessa S.C., con sentenza a Sezioni Unite (n. 13/00, Bove), ha precisato che la fattispecie in questione ricorre solo quando la condotta incriminata sia posta in essere nell'ambito di una struttura che, pur rudimentale, sia finalizzata ed idonea alla realizzazione ed alla diffusione del "prodotto" su vasta scala.

Non sfugge, però, che l'argomento "prova troppo" e, soprattutto, se seguito, porterebbe ad una tale interpretazione delle norme in questione da creare una vera e propria "zona franca" caratterizzata dalla impunità per quei comportamenti (proprio come quelli in esame) nei quali lo sfruttamento del minore per la "produzione" (per seguire il linguaggio della norma previgente, da applicarsi qui) ovvero anche la "realizzazione e produzione" (con riferimento alla formulazione della norma vigente dopo la novella n. 38/06) del materiale pornografico, nonché la sua "diffusione", avvengano in maniera, per così dire, artigianale e per una cerchia limitata di soggetti.

Così opinando, non solo, si verserebbe in un caso di interpretazione della norma di dubbia costituzionalità ma, soprattutto, si finirebbe per snaturare la ratio di una disposizione che, unitamente a quelle introdotte con la legge n. 269/98, ha inteso predisporre una tutela anticipata, ampia e progressiva dello sviluppo fisico, psicologico, spirituale, morale e sociale dei minori, con particolare riguardo alla sfera sessuale.

Ciò è tanto vero che già i primi commenti dottrinari, all'indomani della entrata in vigore della legge 269/98, evidenziavano il fatto che l'accorpamento in un'unica disposizione (l'art. 600 ter) di una molteplicità di condotte (realizzazione di esibizioni pornografiche e produzione di materiale pornografico) rischiava di porre sullo stesso piano condotte eterogenee sul piano criminologico e caratterizzate da forme di offesa diverse (da un iato, l'utilizzazione di minori per la realizzazione di esibizioni con loro conseguente coinvolgimento consapevole e, dall'altro, produzione di materiale pornografico eventualmente anche all'insaputa dell'interessato).

È stato, appunto, per dare risposta a queste perplessità interpretative che questa S.C. ha chiarito, con la citata sentenza n. 13/00, che l'art. 600 ter presiede alla tutela di quelle situazioni nelle quali siano individuabili indici di concreto pericolo che l'attività posta in essere sia idonea a soddisfare l'esigenza di un vasto mercato di pedofili. Ed è stato, quindi, sempre per detto motivo, che, nel caso sottoposto al suo esame, la S.C. escluse la ricorrenza del concreto pericolo di diffusione del materiale in una ipotesi in cui l'agente aveva realizzato e detenuto alcune fotografie pornografiche che ritraevano un minorenne consenziente, per uso puramente affettivo, anche se perverso.

Per ragioni analoghe - e coerenti con detto principio - in seguito, questa Corte (sez. III, 21.1.05, Rv. 230732) ha ravvisato la ricorrenza della fattispecie di cui all'art. 600 ter nel caso di un soggetto che possedeva un imponente apparato informatico ed ingente materiale pedopornogarfico da lui stesso realizzato ovvero (sez. III 1.12.09, 245749) nella condotta di colui che, mediante telefono cellulare, aveva effettuato riprese fotografiche di un minore nudo in quanto, per lo strumento usato, ricorreva il concreto pericolo di una vasta ed indiscriminata diffusione del materiale prodotto. In altri termini, è abbastanza chiaro come, nella lettura datane da questa S.C., l'art. 600 ter (sia, nella formulazione antecedente la riforma del 2006, che, in quella successiva) si ponga come disposizione volta a reprimere le più gravi condotte (di aggressione ad una serena evoluzione della identità sessuale del minore) realizzate attraverso un contesto di organizzazione almeno embrionale e di destinazione anche potenziale del materiale pornografico alla successiva fruizione di un numero imprecisato di terzi (cosi da ult. anche Sez. III, 11.3.10, Rv. 246982).

Tutto ciò, però, è ben lungi dal consentire la semplicistica conclusione che - ove la condotta incriminata di realizzazione del materiale pedo-pornografico si avvenuta in maniera "casalinga" o "estemporanea" e non risulti (per assenza di indici obiettivi in tal senso) destinata a soddisfare il c.d. "mercato" della pedofilia - diventi di per sé condotta neutra e non sanzionabile penalmente.

Di certo, ciò non può affermarsi proprio a fronte della espressa predisposizione di una ulteriore norma - quale è l'art. 600 quater che, comunque, punisce la detenzione del materiale pornografico.

La creazione di tale norma rappresenta, all'evidenza, la "chiusura del cerchio" al cui interno ricomprendere ogni possibile forma di aggressione al bene primario del libero e corretto sviluppo psicofisico del minore, segnatamente, della sua sfera sessuale.

Come correttamente osservato dalla prima dottrina di commento alla normativa in esame, se si vuole limitare l'offerta del materiale pornografico, non basta sanzionarne la realizzazione e produzione ma occorre punirne anche la domanda, essendo, cioè, evidente che una attività di produzione diffusione e/o messa in commercio, in tanto, prospera, in quanto, vi siano soggetti che, a monte, sono interessati a detenere (o acquistare tale materiale).

A tale stregua, non vi è dubbio che - come già affermato da questa Corte (sez. III, 20.11.07, Rv. 238567) - l'art. 609 quater rappresenti "l'ultimo anello di una catena di variegate condotte antigiuridiche, di lesività decrescente, iniziate con la produzione dello stesso e proseguite con la sua commercializzazione, cessione, diffusione ecc". Né deve trarre in inganno l'ulteriore conclusione cui perviene questa decisione secondo cui "in tale contesto, deve escludersi dal novero dei soggetti attivi coloro che hanno prodotto il materiale ed in relazione al quale la detenzione costituisce un post-factum non punibile".

La citazione di tale enunciato da parte del difensore ricorrente rappresenta l'argomento suggestivo in base al quale sostenere la non punibilità del proprio assistito ma non può sfuggire la frattura logica del ragionamento difensivo che, nell'utilizzare il predetto principio giurisprudenziale, trascura di considerare che esso, in tanto, è valido, in quanto, il soggetto accusato di detenzione sia concretamente punibile per la diversa condotta di produzione o diffusione del materiale pornografico a mente delle più gravi disposizioni che precedono l'art. 600 quater. Diversamente argomentando, verrebbe meno la logica della complessiva legge 269/98 che - proprio per garantire una tutela a 360 gradi - ha previsto un sistema di tutela "a cascata" in cui la previsione dell'art. 600 quater (quella sanzionata più lievemente) subentra laddove non siano applicabili le altre e più gravi disposizioni.

Invero, la fallacia della tesi del ricorrente - secondo cui la mera detenzione di materiale ottenuto con lo sfruttamento dei minori, ma sganciata da qualsiasi pericolo di diffusione, sarebbe penalmente irrilevante - è stata già asserita in altra occasione da questa S.C. (sez. III, 7.6.06, rv. 234699) che ha, per l'appunto, ribadito il principio in base al quale "mentre il delitto di cui all'art. 600 ter, comma primo c.p., ha natura di reato di pericolo concreto, la fattispecie di cui all'art. 600 quater richiede la mera consapevolezza della detenzione del materiale pedo-pornografico, senza che sia necessario il pericolo della sua diffusione ed infatti tale fattispecie ha carattere sussidiario rispetto alla più grave ipotesi delittuosa della produzione di tale materiale a scopo di sfruttamento". Interessante sottolineare che tale enunciazione è stata fatta con riferimento ad un caso - come quello in esame - disciplinato dalla norma nella sua formulazione anteriore a quella introdotta con la legge n. 38 del 2006. Del resto, a ben vedere, anche in questa decisione, non si è fatto altro che dare attuazione concreta alle indicazioni che pervengono proprio da quella sentenza a Sezioni Unite (n. 13/00) - evocata più volte - ove i giudici dicevano che "la norma, per non lasciare impunite talune condotte di sfruttamento dei minori a fini di pratiche sessuali illegali, copre come si evince dall'inciso “al di fuori delle ipotesi previste dall'articolo precedente” quelle in cui non ricorra il concreto pericolo della diffusione del materiale" ed incidentalmente ribadiscono che "ove non ricorra il reato di cui all'art. 600 ter, anche per l'inesistenza del pericolo di diffusione del materiale, può sussistere altra figura di reato, compresa quella di detenzione di materiale pornografico di cui all'art. 600 quater".

Il presente ricorrente, perciò, cita in modo improprio la pronunzia di questa S.C. perché essa non legittima affatto l'asserzione che tutte le norme introdotte con la legge 269/98 richiedano indiscriminatamente, per la configurabilità delle fattispecie criminose in essa previste, un pericolo di diffusione del materiale pedo-pornografico e, quindi, non autorizza neppure la restrizione del raggio di operatività di una disposizione, come l'art. 600 quater, che - al contrario - interviene a sanzionare la condotta "minima" del detenere (0 procurarsi) il materiale pornografico al di fuori dei casi di punibilità di condotte più ampie e gravi come quelle previste dall'art. 600 ter.

Del resto, in caso contrario, si finirebbe per rinnegare le chiare finalità di una legislazione nata proprio con il titolo di "Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minore, quali nuove forme di riduzione in schiavitù". E non vi è dubbio che anche una condotta apparentemente "minima" come quella dell'odierno imputato (sia pure inquadrarle nell'ambito della "ragazzata" da parte di adolescenti) possa rappresentare una aggressione al bene giuridico che le norme introdotte con tale legge avevano di mira.

Del resto, prova emblematica, di quanto appena affermato è la stessa vicenda in esame ove è provato che la minore oggetto delle riprese abusive detenute dall'imputato, Sia pure per USO quasi "privato" (oltre alla visione degli stessi imputati, vi è stata solamente quella di altri tre ragazzi), ha avuto significative ripercussioni psicologiche che l'hanno costretta a cure e terapie per superare il trauma di avere scoperto che quelli che ella considerava amici avevano approfittato della confidenza e della fiduciosa frequentazione della abitazione di uno di essi per riprendere scene di effusioni amorose a sfondo sessuale con il ragazzo che ella frequentava all'epoca.

Se, quindi, è stato corretto, da parte dei giudici di merito, escludere che quella condotta integrasse alcuno dei comportamenti descritti nel primo o nel terzo comma dell'art. 600 ter (per assenza di un concreto pericolo di diffusione del materiale pedopornografico), altrettanto corretto è stato il sanzionare l'agire di L.F. per il solo fatto di avere detenuto quel materiale.

D'altro canto, la chiara finalità della disposizione in esame di non lasciare varchi di impunità alle molteplici modalità di lesione del bene della integrità psicofisica-sessuale del minore è costituita anche dal ricorso alla previsione di condotte alternative (ma che possono anche coesistere) come il "procurarsi" (inteso in varie accezioni) o, comunque, "disporre" del materiale pedo-pornografico (sez. III, 20.9.07, rv. 238079).

Siffatto comportamento - nel senso dell'aver avuto la "disponibilità" - è sicuramente riconoscibile nell'azione del L.F. e non vi è neanche dubbio che detta condotta sia stata sostenuta dalla coscienza circa il tipo di materiale detenuto e dalla volontà di disporne (indipendentemente da qualsiasi specifica finalità di diffusione 0 dalla sussistenza o meno di qualsivoglia pericolo in tal senso - non essendo, né l'uno né l'altro, elementi richiesti dalla norma per la integrazione della fattispecie-).

Siffatto giudizio si pone del tutto in linea anche con altra recente decisione di questa S.C. che, nel pronunciarsi in un caso in cui l'agente aveva ripreso - a sua insaputa - un bambino mentre si denudava per cambiare il costume in una cabina, ha ritenuto ravvisarle la fattispecie di cui all'art. 600 ter per la semplice ragione che - a differenza dal caso che qui occupa - era stata acquisita la prova della esistenza di un adeguato sistema di diffusione delle immagini captate (sez. III, 9.12.09, n. 8285 dei 2010).

Del tutto corretto - e coerente con i principi fin qui enunciati - è dunque l'affermazione del Tribunale (avallata dalla Corte d'appello) - secondo cui "l'assenza di prove di altre condotte analoghe, la mancata replica su supporti informatici del filmato rendono evidente che lo scopo perseguito dai prevenuti era quello di invadere la privacy e diffamare al parte lesa, ma non già di realizzare materiale pornografico destinato al mercato dei pedofili”.

Per tale fatto, già in sé lesivo della riservatezza e sfera sessuale della parte lesa (che è tanto più fragile perché minore), è, quindi, corretto irrogare la sanzione, sia pure con riguardo alla fattispecie criminosa meno grave predisposta dal legislatore.

Il ricorso in discussione è, quindi, da respingere anche perché sono persino manifestamente infondati, gli ulteriori argomenti difensivi - che, anche se secondari, sono stati ribaditi nella discussione orale - tesi a porre in dubbio il tipo di immagini e scene riprese, sull'assunto che non vi sarebbero stati denudamenti veri e propri ma semplici (e quasi caste) effusioni tra adolescenti. È fin troppo ovvio rammentare, a riguardo, che il giudizio di legittimità non può risolversi in una rivisitazione delle testimonianze e delle prove acquisite per argomentarne conclusioni diverse - ancorché astrattamente possibili. Così facendo, infatti, si finirebbe per invadere il terreno di competenza dei giudici di merito dei quali si deve solo verificare che abbiano preso in considerazione tutte le emergenze processuali, senza travisarle, ma interpretandole in modo non manifestamente illogico.

Ciò è quanto, per l'appunto, avvenuto nella specie.

Nel respingere il ricorso, segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile liquidate in Euro 2.500,00 oltre accessori di legge.

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