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lunedì 28 febbraio 2011
Viaggi: Roma / Lecce
Il treno era partito in orario ed era gia qualche ora che correva verso sud.
Il paesaggio prendeva aspetti diversi e l'aria si faceva più tiepida. Attraversavo per la prima volta il territorio a sud di Caserta e i caratteri mi riportavano indietro agli anni della fanciullezza quando per motivi diversi ne avevo già preso coscienza ora per una gita scolastica, ora per motivi di lavoro.
Il primo appunto fotografico preso durante il viaggio ... |
Il treno va piano e il paesaggio non si fa rincorrere. |
I fichi d'india non mancano mai... |
Oltre gli ulivi i fantasmi di costruzioni non rurali. |
Un'ultima follia ..... |
che restituisce al paesaggio altre sembianze e poi la meta. Stazione di Lecce. |
Incomincia la visita alla città. |
domenica 27 febbraio 2011
Castellammare di Stabia: Abbasci' 'o sciummo.
Abbisci’ ‘o sciummo.
‘O sciummo, per noi stabiesi, è il fiume Sarno che segna il confine del nostro territorio con i comuni di Torre Annunziata e Pompei.
Nasce nei pressi del comune omonimo ad una quota di circa 30 metri sul livello del mare, alle pendici del monte Saro, che fa parte dei Monti Picentini, ed è alimentato nel suo percorso dai rivoli Rio Foce, Acqua di Palazzo e Acqua Santa Marina.. I romani lo chiamavano Draconcello per la sua forma sinuosa anche se oggi non più visibile, poiché nel 800 il suo corso fu ampiamente rettificato. Il nome gli fu dato dai Sarrastri, una popolazione pelasgica, arrivata dal Peloponneso .
Nel centro di Scafati, accanto alla Chiesa Madonna delle Vergini, il fiume viene diviso in due da una traversa determinando il canale Bottaro che rientra nel Sarno a circa un chilometro dalla foce, a monte dello stabilimento farmaceutico sul territorio di Torre. Il Sarno, dopo circa 24 chilometri , conclude la sua corsa nel Tirreno di fronte allo scoglio di Rovigliano.
Nel tempo l’acqua del Sarno è stata utilizzata prima per gli acquedotti cittadini e poi per usi industriali e irrigui determinando la fortuna del bacino agricolo che attraversa favorendo le culture che nel tempo sono diventate famose per le loro qualità organolettiche e per i sapori che hanno introdotto nella cucina locale e mediterranea diffondendo in Italia e nel mondo le specie locali, vedi i pomodori, i carciofi di Castellammare che profumano come un boquet la nostra cittadina tutte le domeniche.
La zona, prossima al fiume, è stata da sempre abitata dai “campagnuole”, che non la mollano neppure oggi nonostante il progresso abbia portato a ridosso delle loro terre insediamenti industriali estranei all’agricoltura, continuando a produrre ortaggi e fiori, che eccellono su tutti i mercati dell’interland e fuori regione. La bellezza ed il fascino di Schito del dopoguerra e degli anni più avanti, sono stati ben rappresentati da Filosa nelle sue opere pittoriche (vedi sito) e da altri pittori di scuola stabiese.
L’acqua del Sarno, nel dopo guerra, l’ho bevuta attingendola direttamente dai canali irrigui fino agli anni cinquanta quando frequentavo le terre di mia nonna, a Torre centrale. Era buonissima e leggera. Oggi è il fiume più inquinato che esiste.
Gioacchino Ruocco
Agricoltura e cucina
Il Carciofo Violetto di Castellammare
Campania
Campania
I carciofi sembrano tutti uguali eppure ce ne sono tante varietà. Le diversità stanno nella grandezza, nella forma, nel colore e nel sapore che invece bisogna accertare gustandolo.
Abito, ormai, a Roma dal 1972, dove appresi del carciofo alla giudia, della bonta del carciofo romanesco e delle modalità di cucinarlo, ma un girono che mi trovavo nella piana di Latina per motivi di lavoro, in un momento di stanchezza mi fermai a guardare il campo sterminato di carciofi che mi stava davanti.
Una voce dal campo mi sorprese e mi richiamò alla realtà. Che hai bisogno di carciofi ?Ed io in risposta: - Perché li vendi ? La risposta fu di quelle che non lasciano dubbi: - E che stò a perdere tempo ? Questi so’ buoni. E via con tutte le qualità e le bontà del prodotto. Questi so’ i Castellammare.
Non potevo non chiedere: Che cosa sono ? I Castellammare, i carciofi della delizia. Quanno te li magni, ti senti n’atu tanto. Comme se dice ? So’ nu zucchero.
Era stato il nome di Castellammare che mi aveva fatto trasalire. Castellammare di dove ? Gli chiesi. Chella ‘e Napoli, fu la risposta. Perché tu di dove sei ? Mancò poco che me li regalasse.
Ne avevo mangiati tanti negli della mia fanciullezza cucinati in tutti i modi possibili apprezzandoli sia per il modo in cui era stati preparati sia per la loro bontà, ma non sapevo che i carciofi di Schito era una qualità a parte e cosi apprezzati.
Oggi che ho un po’ più di tempo da dedicare a tutte le cose che mi hanno accompagnato e reso quello che sono, mi son messo a scrivere questa nota per testimoniare le qualità che questi carciofi posseggono come ho fatto già qualche giorno addietro nel commento che ho lasciato sul blog “ Il gusto dei ricordi” della carissima amica Cinzia Cripe il 7 febbraio 2011
“ Cara Cinzia, mi hai ricordato i carciofi di Schito e non posso far finta di non capire. L’aroma che diffondono nell’aria durante la cottura sulla brace mi porta ad uno stato di grazia che esalta tutte le sanzioni che da essi derivano nel momento della consumazione. Il pensiero é catturato dalla delizia che rappresentano e che non può essere compreso da chi non li ha mai mangiati o degustati.
Il carciofo alla brace deve cotto con attenzione e con amore, riempito solamente di prezzemolo, aglio e un tantino di sale e olio d’oliva dopo la cottura a pulizia avvenuta.
I fumi che esalano dai terrazzini, dai balconi, dalla strade non sono segnali di fumo come quelli dei pellerossa, ma quelli dei buon gustai che non sanno rinunciare ad un boccone così prelibato come i carciofi di Schito sempre teneri e gradevoli anche crudi all’insalata, irrinunciabili in tutte le ricette che li utilizzano e li propongono come alimento in quanto non solo deliziano il palato, ma faciltano anche il ricambio e la cura del fegato in modo piacevole.”
G. Ruocco
Il carciofo alla brace deve cotto con attenzione e con amore, riempito solamente di prezzemolo, aglio e un tantino di sale e olio d’oliva dopo la cottura a pulizia avvenuta.
I fumi che esalano dai terrazzini, dai balconi, dalla strade non sono segnali di fumo come quelli dei pellerossa, ma quelli dei buon gustai che non sanno rinunciare ad un boccone così prelibato come i carciofi di Schito sempre teneri e gradevoli anche crudi all’insalata, irrinunciabili in tutte le ricette che li utilizzano e li propongono come alimento in quanto non solo deliziano il palato, ma faciltano anche il ricambio e la cura del fegato in modo piacevole.”
G. Ruocco
È conosciuto anche come “carciofo di Schito”, per il nome della frazione di Castellammare di Stabia considerata, già in epoca romana, particolarmente vocata all’orticoltura. Prova ne è che la zona, non lontana da Pompei, era identificata con il toponimo “orti di Schito”.
Il carciofo di Castellammare è un sottotipo della varietà Romanesco, da cui si differenzia per l’epoca di produzione anticipata e il colore delle bratte, verdi con sfumature viola. La precocità è data dalla particolare mitezza del clima e dall’abitudine di rigenerare le piante ogni anno. All’epoca della ripresa vegetativa vengono scelti i migliori carducci, i germogli erbacei laterali che spuntano tutt’intorno alle piante madri, prelevati insieme a piccole porzioni di rizoma e trapiantati a dimora.
Un’altra particolarità è data dall’antica tecnica colturale, tradizionalmente associata a tale varietà. Era uso, infatti, coprire la prima infiorescenza apicale (mamma o mammolella) con coppette di terracotta (pignatte o pignattelle) realizzate a mano da artigiani locali. La protezione dai raggi del sole, assicurata dalla pignatta nella fase di accrescimento del carciofo, lo rende particolarmente tenero e chiaro.
A Castellammare ha un legame forte con la tradizione della Pasqua, che normalmente coincide con il periodo centrale della produzione. In particolare, il carciofo arrostito nella brace è il piatto simbolo del lunedì di Pasquetta. Si usa il carciofo intero, posto direttamente nella brace di un barbecue. Quando è cotto (dopo circa mezz’ora) viene ripulito delle foglie bruciacchiate, condito con sale, pepe, prezzemolo, aglietto fresco e un filo di olio e consumato in abbinamento agli insaccati della tradizione contadina (in particolare dei Monti Lattari): salame e soppressata.
Il Presidio - La piana che dalle pendici del Vesuvio si stende fino a Castellammare e Sant’Antonio Abate, è storicamente uno dei centri di riferimento per l’orticoltura del centro-sud Italia. Nel periodo di raccolta le mamme sono molto ricercate sul mercato napoletano per la grande qualità organolettica, mentre i carciofini più piccoli sono poi usati per la trasformazione sott'olio.
Area di produzione
Comuni di Castellammare di Stabia, Gragnano, Pompei, Sant'Antonio Abate, Santa Maria La Carità (provincia di Napoli).
Stagionalità
La raccolta si effettua come primizia da fine febbraio ad aprile/maggio, il periodo centrale della produzione coincide con le festività pasquali.
La raccolta si effettua come primizia da fine febbraio ad aprile/maggio, il periodo centrale della produzione coincide con le festività pasquali.
Liberatoria: Ufficio presìdi Slow Food Italia
Info Presidi - Slow Food
Il giorno 23/feb/2011, alle ore 15.06, Ruocco Gioacchino
Info Presidi - Slow Food
Il giorno 23/feb/2011, alle ore 15.06, Ruocco Gioacchino
sabato 26 febbraio 2011
I Proverbi di Pulcinella
Pulcinella (G. Ruocco 1959)
Dicette ‘a vecchia: Si nun te ponno arrubbà ‘a carne ‘a copp’ ô ffuoco, t’’a fanno abbruscià.
Disse la vecchia: Se non possono rubarti la carne dal fuoco, te la faranno bruciare.
Dicette ‘a volpe: quanno galline e quanno scarrafune.
Disse la volpe: talvolta (mangerò) galline, talvolta scarafaggi. Non sempre si può ottenere il meglio, spesso occorre accontentarsi di ciò che capita.
Disse la volpe: talvolta (mangerò) galline, talvolta scarafaggi. Non sempre si può ottenere il meglio, spesso occorre accontentarsi di ciò che capita.
Dicette chillo: nun è ‘a merce ca nun ce aggústa , ma è ‘a muneta ca nun ce abbasta. -
Disse un tale: non è la merce che non ci piace, è il danaro che è insufficiente.
Il vero problema non è il gusto, ma la penuria di mezzi.
Dicette chillo: ‘e cunte a lluongo addiventano sierpe.
Disse un tale: non è la merce che non ci piace, è il danaro che è insufficiente.
Il vero problema non è il gusto, ma la penuria di mezzi.
Dicette chillo: ‘e cunte a lluongo addiventano sierpe.
Disse un tale i conti protratti nel tempo, cioè non saldati rapidamente diventano come serpenti.
Dicette mast’Antuono: Pozza murí ‘e truono chi nun le piace ‘o bbuono.
Disse mastro Antonio: possa morire bastonato quello a cui non piaccia la buona tavola.
Dicette mast’Antuono: Pozza murí ‘e truono chi nun le piace ‘o bbuono.
Disse mastro Antonio: possa morire bastonato quello a cui non piaccia la buona tavola.
Dicette don Crispino â cummara: chi pratteca se ‘mpara. -
La pratica val piú della grammatica…
Dicette ‘nu saputo: Nun c’è ppeggio ‘e ‘nu cafone resagliuto.
Disse un uomo di vaste conoscenze,cioè pratico della vita : Non c’è peggior cosa di un villano arricchito.
Dicette ‘o cafone: ‘Na vota sola me puó fà fesso. - Disse il villano: Una sola volta potrai imbrogliarmi.
Dicette ‘o cafone: ‘Na vota sola me puó fà fesso. - Disse il villano: Una sola volta potrai imbrogliarmi.
'O ciuccio dicette ‘o cavallo: Cumpà t’aspetto ‘nfacci’ a sagliuta.
Disse l’asino al cavallo (che nel piano, faceva il gradasso):
Compagno ti attendo (cioè: voglio vdere cosa saprai fare) al momento della salita.
I gradassi ed i supponenti perdono la loro sicumera nei momenti difficili.
I gradassi ed i supponenti perdono la loro sicumera nei momenti difficili.
Dicette ‘o ciuccio: Si arrivo a me ne ascí ‘a miezo a chesti bbotte, nun ghiesco cchiú a cacà ‘e notte.
Disse l’asino: se riesco a salvarmi da queste percosse non uscirò piú a defecare di notte.
Fonti varie.
Fonti varie.
Per altri proverbi vedi post del 17/03/2011
Antichi mestieri: venditore di fichi d'india.
Venditore di fichi d'India
Ieri, al supermercato, tra la frutta in vendita, vicino al banco delle noci fresche, ho trovato, con grande sorpresa, anche i fichi d’India. Le confezioni ne contenevano quattro o sei. Dalle mie parti, in dialetto napoletano, questo frutto è identificato con il nome di “ficurinia”. Negli anni vissuti in campagna, presso i nonni materni, nel periodo della sua maturazione ci attrezzavamo per asportarli frutti dalle pale delle piante e consumarli a volontà anche se le raccomandazioni di evitare un’indigestione sopravanzavano quelle di non rovinarci le mani con le spine che li rivestono, quasi a proteggerli contro l’ingordigia di noi ragazzi. Al di là dei semi contenuti che possono provocare anche occlusioni intestinali, la polpa, quando il frutto è maturo, risulta gustosissima.
Il ricordo di queste piante dietro la casa di mia nonna è ancora vivo: le pale, come mani enormi cariche di doni, si protendevano nell’aria per inebriarsi al sole e come tutte le piante succulente, producono un lattice che è un toccasana contro le scottature e le irritazioni rinfrescandola e rigenerandola.
Dopo la fine della guerra, col trasferimento definitivo alla casa natia di Vicolo Sorrentino a Mezzapietra, dove i miei abitavano dal giorno del loro matrimonio, la vita nel ritornare al suo tran tran naturale proponeva di tanto in tanto anche nel vicolo di residenza i mestieranti della strada che portavano a domicilio il frutto delle loro iniziative praticate per sbarcare in qualche modo il lunario, assicurandosi la sopravvivenza.
Così un giorno arrivarono anche quelli che vendevano i fichi d’india. Erano per lo più dei ragazzi che trascinavano su carrettini di legno che avevano costruiti loro stessi, cassette di fichi d’india che vendevano sia singolarmente, sia ad “appizzare”, che si risolveva in una sorte di acquisto/lotteria che consisteva nel far cadere il coltello verticalmente, dall’altezza della cintola, con la punta verso il basso, sopra i frutti deposti nella cassetta per poi prelevarne quelli nei quali il coltello era penetrato sempre che non si sfilavano dalla lama nel momento che venivano asportati tenuto conto che il coltello durante tale operazione doveva restare perpendicolare alla cassetta sempre e comunque. Le prestazioni erano diverse con costi diversi. Per un numero illimitato di “appizzate”, fino a quando l’ultimo frutto sollevato non si sganciava dal coltello, vi era un prezzo, oppure si pagava per il numero di colpi che si desiderava effettuare.
Il coltello era sempre di peso modesto, con la punta acuminata ma a lama liscia, senza seghettature che potevano facilitare l’asporto. Il coltello non sempre riusciva a penetrare nei frutti in maniera profonda per cui il risultato era quasi sempre magro. Quando i colpi andavano tutti a vuoto era il ragazzo che ne offriva qualcuno come consolazione per la perdita.
Quando invece le cose andavano a sfavore del venditore sorgevano animate discussione sul modo con il quale si era riusciti a sollevare il coltello dalla cassetta con i frutti infilzati. Le chiacchiere continuavano anche dopo quando il venditore usciva dal vicolo come uno sconfitto e si facevano propositi per la prossima scorpacciata.
Il Paliotti nella sua storia a fascicoli della “Canzone Napoletana”, nel fascicolo n. 9, pubblica una stampa a colori di Pasquale Mattei del sec. XIX, ma il soggetto che vi è rappresentato, è lontano mille miglia da quei che arrivavano nel mio vicolo, dalla loro vivacità e della loro furbizia.
Oggi, a distanza di tanti anni, debbo riconoscere che avevano un carattere eccezionale, una determinazione che il sottoscritto, invece, ha acquisito soltanto nell’età adulta e messa alla prova quando ormai era indispensabile ed ineluttabile.
Comunque i fichi d’india hanno sempre lo stesso fascino e lo stesso sapore, certo, oggi, arrivano in commercio emendati dalle spine e non devi prendere più tante precauzioni nel maneggiarli. Aprirli per consumarli è come aprire uno scrigno dove ci sono sogni che non ti danno mai requie tanti sono i ricordi ad essi legati.
Gioacchino Ruocco
Gia pubblicato in il Libero Ricercatore
Prevenzione infortuni: maniglioni antipanico.
PORTE SULLE VIE DELL’ESODO
Porta provvista di maniglione antipanico |
Dal 16 febbraio 2011 i dispositivi sprovvisti di marcatura CE, posti sulle vie d’esodo, , per assicurare i livelli di sicurezza richiesti dalla norma , dovranno essere sostituiti con quelli che sono stati certificati UNI EN 1125, UNI EN 179 MARCATI CE.
La norma di riferimento è il D.M. del 3 novembre 2004 col quale sono state integrate le norme preesistenti con regole che tenevano conto delle caratteristiche costruttive prestazionali.
Non è necessario sostituire la porta, ma su quelle esistenti devono essere installati dispositivi almeno conformi alla norma UNI EN 179 quando si verifichi una delle condizioni seguenti:
- l’attività è aperta al pubblico e la porta è utilizzata da almeno 10 persone;
- l’attività non è aperta al pubblico e la porta è utilizzabile da un numero di persone superiore a 9 e inferiore a 26.
Il provvedimento ha individuato anche i casi in cui è obbligatorio l’installazione dei dispositivi conformi alla UNI EN 1125 e cioè quando si verifichi che
- l’attività è aperta al pubblico e la porta è utilizzata da più di 9 persone;
- l’attività non è aperta al pubblico e la porta è utilizzabile da più di 25 persone;
- che nei locali si svolgono attività con pericoli di esplosioni e specifi rischi di incendio ed occupino più di 5 persone.
L’Art. 5. (Termini attuativi e disposizioni transitorie) prevede che i dispositivi non muniti di marcatura CE, già installati nelle attività di cui all'art. 3 del decreto, devono essere sostituiti a cura del titolare in caso di rottura del dispositivo o sostituzione della porta o modifiche dell'attività che comportino un'alterazione peggiorativa delle vie di esodo o entro sei anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto.
La manutenzione dei dispositivi di cui al comma precedente dovrà comunque garantire il mantenimento della loro funzionalità originaria e dovrà essere effettuato quanto prescritto al punto c. 3) dell'art. 4.
Vale la pena ricordare le definizioni fornite dal decreto per aver chiaro che “via di emergenza (o via di esodo, o di uscita, o di fuga) è il percorso senza ostacoli che
consente alle persone che occupano un edificio o un locale di raggiungere un luogo sicuro nei casi di emergenza; che l’uscita di emergenza è un passaggio che immette in un luogo sicuro; che l’uscita di piano è l’uscita che consente alle persone di non essere ulteriormente esposte al rischio diretto degli effetti di un incendio e che può configurarsi come uscita che immette direttamente in un luogo sicuro o che immette in un percorso protetto attraverso il quale può essere raggiunta l'uscita che immette in un luogo sicuro
oppure uscita che immette su di una scala esterna.
Il luogo sicuro è rappresentato invece da un luogo dove le persone possono ritenersi al sicuro dagli effetti di un incendio ed un percorso protetto il percorso caratterizzato da una adeguata protezione contro gli effetti di un incendio che può svilupparsi nella restante parte dell'edificio. Esso può essere costituito da un corridoio protetto, da una scala protetta o da una scala esterna.
Tipologie di maniglioni |
giovedì 24 febbraio 2011
Succede a Roma: Cinema all'Ecomuseo sabato 26 febbraio 2011
CINEMAALL'ECOMUSEO
Cinema alla Carta film a scelta degli spettatori
Sabato26febbraioore15:00 / Roma Città Aperta di R. Rossellini
comunicato stampa 11/02/08
Secondo week end di programmazione di Cinema alla Carta all’Ecomuseo del Litorale Romano.
Si inizierà Sabato 26 febbraio alle ore 15,00
con la proiezione di Roma Città Aperta (1945), capolavoro di Roberto Rossellini.
A seguire verrà proiettato Iolanda e Rosselini (1995) filmstudio di Paolo Isaja e Maria Pia Melandri dedicato al recupero di un'importante testimonianza: quella di Jolanda Benvenuti, montatrice cinematografica, che fu la vera esecutrice del montaggio di Roma città aperta di Rossellini.
Domenica 27 febbraio alle ore 10,30 è la volta di Lettere da Sahara (2004), recente ritorno al cinema di Vittorio de Seta.
A seguire verrà proiettato Il placido corso degli eventi (2003), filmstudio di Paolo Isaja e Maria Pia Melandri, girato durante sul set torinese del film di Vittorio De Seta, Lettere dal Sahara.
Al termine delle proiezioni il consueto incontro con il pubblico tenuto da Paolo Isaja, regista e Direttore
dell’Ecomuseo.
L’ingresso alle proiezioni e agli incontri è gratuito.
a seguireCineAntropoGrafie / Iolanda e Rosselini di P.Isaja e M.P.MelandriDomenica27febbraioore10:30 / Lettere dal Sahara di V. De Seta
a seguireCineAntropoGrafie / Il Placido corso degli eventi di P.Isaja e M.P.Melandri
AL TERMINE DELLE PROIEZIONI INCONTRO conPAOLO ISAJA
Sala Visioni dell'Ecomuseo del Litorale Romano
Sala Visioni dell'Ecomuseo del Litorale Romano
VIA DEL FOSSO DI DRAGONCELLO 172 / OSTIA ANTICA
comunicato stampa 11/02/08
L’Ufficio Stampa della CRT Cooperativa Ricerca sul Territorio comunica:
DOPPI APPUNTAMENTI NEL WEEK END CINEMATOGRAFICO DELL’ECOMUSEO: AI TITOLI DI ROSSELLINI E DE SETA SCELTI DAL PUBBLICO, SI AGGIUNGONO I FILMSTUDIO DI PAOLO ISAJA E MARIA PIA MELANDRI
Secondo week end di programmazione di Cinema alla Carta all’Ecomuseo del Litorale Romano.
Questa settimana la scelta del pubblico è andata su due autori fondamentali della storia del cinema italiano: Roberto Rossellini e Vittorio de Seta. Contemporaneamente inizia la nuova rassegna Cine Antropografie, Memorie e Territori nei film di Paolo Isaja e Maria Pia Melandri, dove sarà possibile visionare parte della ricca produzione documentaria dei due registi residenti nel Litorale Romano.
Si inizierà Sabato 26 febbraio alle ore 15,00
con la proiezione di Roma Città Aperta (1945), capolavoro di Roberto Rossellini.
Primo episodio della trilogia neorealista di Rossellini, Roma città aperta è universalmente riconosciuto come un capolavoro, una sorta di film-simbolo del Neorealismo. Accolto freddamente in Italia, il film ebbe immediato successo all'estero vincendo il Festival di Cannes nel 1946.
Il film si ispira alla storia vera di don Luigi Morosini, torturato e ucciso dai nazisti perché colluso con la Resistenza. Nella Roma del '43 e '44, si intrecciano le vicende di alcune persone, coinvolte nella Resistenza antinazista. Durante l'occupazione, don Pietro protegge i partigiani e, tra gli altri, offre asilo ad un ingegnere comunista: Manfredi. Nel frattempo, la popolana Pina, fidanzata con un tipografo impegnato nella Resistenza, viene uccisa a colpi di mitra sotto gli occhi del figlioletto mentre tenta d'impedire l'arresto del suo uomo, trascinato via su un camion. Poco più tardi, anche don Pietro e l'ingegnere - tradito quest'ultimo dalla propria ex-amante tossicodipendente - vengono arrestati. Manfredi muore sotto le atroci torture inflittegli dai tedeschi per ottenere i nomi dei suoi compagni della Resistenza. La sorte di Don Pietro è la stessa: il sacerdote viene fucilato davanti ai bambini della propria parrocchia, tra i quali il figlio ormai orfano di Pina.
A seguire verrà proiettato Iolanda e Rosselini (1995) filmstudio di Paolo Isaja e Maria Pia Melandri dedicato al recupero di un'importante testimonianza: quella di Jolanda Benvenuti, montatrice cinematografica, che fu la vera esecutrice del montaggio di Roma città aperta di Rossellini.
Jolanda conobbe Rossellini alla fine degli anni '30, quando il regista le chiese di montare un suo cortometraggio. Da quel momento nacque tra i due un sodalizio di lavoro che proseguì, pressoché ininterrotto, fino alla scomparsa del regista.
Malgrado ciò, il nome di Jolanda non figura nei credits di Roma Città aperta, che pure fu opera sua per quanto riguarda il montaggio e l'edizione. Forse è per questo suo non formalizzato accredito che, nelle innumerevoli occasione in cui è stata ricostruita la storia della produzione del film, nessuno ha mai pensato di raccogliere la sua testimonianza.
Il film ha partecipato alla LII Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia nel 1995 ed è vincitore del Premio Libero Bizzarri Rassegna Nazionale del Documentario di San Benedetto del Tronto nel 1996.
Domenica 27 febbraio alle ore 10,30 è la volta di Lettere da Sahara (2004), recente ritorno al cinema di Vittorio de Seta.
Il film racconta la storia di un giovane studente senegalese che dopo la morte del padre emigra in Italia. Qui riesce a trovare un lavoro precario a Villa Literno, poi si trasferisce a Firenze da una cugina che fa l'indossatrice per giungere, in fine, a Torino. Qui, grazie anche a un'insegnante di italiano, trova una situazione stabile, ma un'aggressione razzista lo spinge a riconsiderare tutto.
A seguire verrà proiettato Il placido corso degli eventi (2003), filmstudio di Paolo Isaja e Maria Pia Melandri, girato durante sul set torinese del film di Vittorio De Seta, Lettere dal Sahara.
I due autori si concentrano sull’osservazione della tecnica con la quale De Seta imposta la scena, la fa eseguire, la discute alla sua conclusione per trovare insieme agli attori e ai tecnici le modifiche da apportare. Anche durante l’esecuzione della ripresa del film, le loro telecamere sono più spesso rivolte verso il regista, l’operatore, la troupe tecnica che verso il luogo dell’azione.
Poi, nei momenti di riposo, De Seta vede il materiale girato insieme ai suoi collaboratori, analizzando, criticando, per trovare sempre nuove soluzioni, magari all’apparenza impraticabili.
Per poi tornare sui set, continuare i sopralluoghi, scartare eventualità, programmare nuove scene.
Al termine delle proiezioni il consueto incontro con il pubblico tenuto da Paolo Isaja, regista e Direttore
dell’Ecomuseo.
Le proiezioni hanno luogo della Sala Visioni del Polo Ostiense dell’Ecomuseo del Litorale Romano.
Il Polo Ostiense dell’Ecomuseo del Litorale Romano si trova nell’Area dell’Impianto Idrovoro di Ostia
Antica, in Via del Fosso di Dragoncello, 172 (località Longarina) nelle vicinanze di Ostia Antica e a circa 3
km da Ostia Lido. Tutte le informazioni utili e il programma completo delle rassegne sul sito:
http://www.ecomuseocrt.it/
Antica, in Via del Fosso di Dragoncello, 172 (località Longarina) nelle vicinanze di Ostia Antica e a circa 3
km da Ostia Lido. Tutte le informazioni utili e il programma completo delle rassegne sul sito:
http://www.ecomuseocrt.it/
L’ingresso alle proiezioni e agli incontri è gratuito.
VISIONA I NOSTRI LIBRI QUI: http://www.ecomuseocrt.it/pubblicazioni/libri/
E SCOPRI I NOSTRI FILM: http://www.ecomuseocrt.it/pubblicazioni/film-e-multimedia/
E SCOPRI I NOSTRI FILM: http://www.ecomuseocrt.it/pubblicazioni/film-e-multimedia/
CRT - Cooperativa Ricerca sul Territorio
via del Fosso di Dragoncello 168 - 172
CAP 00124 Ostia Antica - Roma
CAP 00124 Ostia Antica - Roma
tel: 06.5650609 / email: crt.ecomuseo@tin.it
mailinglist e comunicati: info@ecomuseocrt.it
Josè de Guimaraes: Mondi, corpo e Anima - Capena fino al 30 aprile 2011
Capena fino al 30 aprile 2011
Josè de Guimaraes: Mondi, corpo e Anima -
Gioconda nera, 1975, Acrilico su tela, 99,5 x 80,5 cm Collezione Würth, Inv. 6464 |
Carte perforate, 1996, Carta perforata su tela, acrilico, sabbia eporporina 100 x 72 cm, Collezione Würth, |
Maschera con tatuaggi, 1973, Acrilico su tela, 100 x 75 cm Collezione Würth, Inv. 6463 |
Serie Hong Kong: Sogno nella pagoda del Palazzo Celeste, 1997, Acrilico su tela (trittico), 250 x 600 cm
Collezione Würth, Inv. 4040
Collezione Würth, Inv. 4040
La mostra José de Guimarães – Mondi, Corpo e Anima all’Art Forum Würth Capena presenta oltre 130 opere realizzate nell’arco di quattro decenni. Alle 34 tecniche miste, gran parte delle quali appartenenti alla Collezione Würth, si aggiungono 103 elementi dell’Alfabeto africano.
José de Guimarães è stato definito da Pierre Restany “artista transculturale” ed il suo percorso sembra aver seguito le rotte dei marinai e degli esploratori portoghesi che nel passato hanno raggiunto nuovi mondi, mescolandoli e fondendoli.
Il linguaggio che José de Guimarães ha saputo costruire è strutturato in segni e codici e parte dall’assimilazione e dalla rielaborazione del contenuto magico, delle forme e dei significati dell’arte africana. Nei suoi lavori mondi e culture diverse dialogano tra di loro alla ricerca di una possibile armonia, ma anche il corpo umano ed il tema della metamorfosi hanno un ruolo centrale.
José Maria Fernandes Marques nasce nel 1939 a Guimarães in Portogallo ed utilizza il nome del suo paese natale come pseudonimo fin dai primi anni Sessanta. Nel 1967 inizia un soggiorno di sette anni in Angola ed il contatto con la cultura africana lo porta ad elaborare un proprio progetto artistico, oltre che a dare inizio ad una vasta raccolta etnografica. Per questo il criterio espositivo della mostra stabilisce un affascinante dialogo tra le creazioni di Guimarães e 24 opere d’arte tribale africana provenienti dalla collezione privata dell’artista. La fascinazione nei confronti dello spirito vitale e della potenza espressiva dell’arte africana si manifesta con evidenza in uno dei più importanti lavori di questa mostra, l’Alfabeto africano, ma anche in Maschera con tatuaggi del 1973, dove le forme ideografiche e frammentate del primo sono combinate in una composizione più articolata.
L’esposizione si snoda come un viaggio tra Oriente e Occidente. L’immaginario fantastico di José de Guimarães infatti guarda anche oltre l’Africa e ci guida alla scoperta della filosofia e della cultura cinese e giapponese, della concezione ancestrale della morte in Messico e della letteratura di Luís Vaz de Camões. Le opere scelte sono state realizzate con una grande varietà di materiali e procedimenti: acrilici e tecniche miste su tela, casse di legno policrome con oggetti vari, carte perforate su tela; in quelle dei primi anni la priorità è data alla frammentazione della figura umana, come nella Gioconda nera (1975). Le serie Messico (1995–1997) e Hong Kong (1997) evocano l’arte precolombiana e la raffinatezza estetica della Cina, mentre Favela (2007) appartiene al gruppo di installazioni realizzate negli ultimi anni con casse da imballaggio di opere d’arte rielaborate con grande fantasia, colori vivaci e l’impiego di luci al neon. Donna automobile (2003) è emblematica della capacità di mescolare forme e trovare metafore tra una figura e l’altra fino alla creazione di esseri metamorfici, paradossali e ironici. Un altro aspetto della ricerca di Guimarães riguarda la reinterpretazione dei grandi classici dellastoria dell’arte, qui esemplificata dalla stessa Gioconda nera.
I lavori di José de Guimarães sono presenti in alcune delle più importanti collezioni d’arte in Germania, Belgio, Brasile, Giappone, Israele, Spagna, Messico e Portogallo. Nel 1993 l’artista ha creato il simbolo del turismo portoghese, nel 2001 la Società Portoghese degli Autori lo ha premiato per la sua carriera artistica e nel 2005 il Presidente della Repubblica Portoghese lo ha onorato con la Gran Croce dell’Ordine al Merito.
Nel 2001 il Museo Würth a Künzelsau in Germania ha organizzato la prima grande retrospettiva del suo lavoro e a questa sono seguite altre mostre a Pechino, San Paolo, Lisbona, Vigo e al Museo Würth La Rioja.
Il nome del Gruppo Würth, il cui core business è la commercializzazione di prodotti per il montaggio ed il fissaggio, è indissolubilmente legato all’arte e alla cultura. La loro forte presenza e le varie attività svolte sono l’espressione di una cultura aziendale particolarmente vivace. Il museo d’arte presso la sede di Künzelsau (nel Baden-Württemberg) e gli spazi espositivi nelle filiali estere in Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Norvegia, Olanda, Spagna e Svizzera costituiscono la prova tangibile di questo impegno molto particolare. Le mostre ovunque perfettamente integrate nel contesto aziendale, creano una suggestiva simbiosi tra i capolavori della Collezione Würth, che conta ormai oltre 12.500 opere d’arte, e mondo del lavoro.
Würth, Capena |
Orari d’apertura
Dal Lunedì al Sabato dalle ore 10.00 alle ore 17.00Chiusura: tutte le Domeniche e festivi
Ingresso
Gratuito
Visite guidate
Gratuite al pubblico ogni sabato alle ore 11.00.
Informazioni e prenotazioni per le visite guidate di gruppi e scuole al numero di Tel. +39 06 90103800.
Informazioni e prenotazioni per le visite guidate di gruppi e scuole al numero di Tel. +39 06 90103800.
Le visite guidate sono gratuite.
Per migliorare l’agibilità del percorso e la relativa visione delle opere esposte, ogni gruppo dovrà essere costituito da un numero massimo di 25 partecipanti.
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