“Chiuso per Covid”. Potrebbe riassumersi più o meno così lo
spettro che alberga ormai da settimane nelle menti di molti operatori del
settore oil & gas. Alle prese con uno dei più grandi crolli di
domanda petrolifera della storia e, come se non bastasse, con
gli effetti della guerra dei prezzi tra Arabia Saudita e Russia, il mercato
petrolifero si trova a vivere un presente senza precedenti e a guardare
al futuro con crescente preoccupazione. Crollo della domanda e
improvviso aumento dell’offerta sono emersi come due fattori che, combinati,
potrebbero presto lasciare sul terreno una vittima illustre e fondamentale per
la sopravvivenza dell’intero settore fino alla ripresa (si spera) della vita e dei
trasporti come ce li ricordiamo prima del coronavirus: la
capacità globale di immagazzinamento.
L’aumento
drammatico della produzione proprio nei mesi di peggiore crollo della domanda
ha portato i magazzini di greggio di tutto il mondo a riempirsi come
mai avvenuto nell’intera storia del settore. Il primo effetto drammatico l’abbiamo
visto sul mercato del WTI (West Texas Intermediate), il
contratto utilizzato per l’interscambio di greggio negli Stati Uniti. A rendere
questo titolo particolarmente soggetto a improvvise fiammate di svalutazione in
questa fase sono infatti le abituali modalità di trasporto e immagazzinamento
negli USA: il petrolio americano passa attraverso pipeline nelle quali il
greggio non può essere “parcheggiato”, ma da dove deve essere necessariamente
convogliato in cisterne di immagazzinamento apposite. Nel caso degli USA,
queste ultime si concentrano nella cittadina di Cushing, Oklahoma, e la loro
saturazione è prevista per l’inizio di maggio. Ed è stata
proprio la chiusura dei contratti di maggio, che di solito avviene nell’ultima
settimana di contrattazioni del mese precedente, a portare il panico tra gli
operatori, atterriti all’idea di dover prendere fisicamente in carico del
greggio impossibile da immagazzinare. Ora la vera domanda è se dobbiamo
aspettarci di assistere a ondate di panico analoghe al termine di ogni mese di
contrattazioni, o ad una stasi sostanziale degli scambi.
Leggermente
più rosea, ma probabilmente ancora per poco, è la situazione per il greggio
scambiato all’interno del sistema del Brent, il tipo di contratto utilizzato
in Europa. Il Brent viaggia infatti prevalentemente via mare, e
al contrario del WTI può effettivamente essere “parcheggiato” quasi
indefinitamente sulle petroliere oltre che essere immagazzinato nelle cisterne
a terra. L’eccessiva produzione sta però rapidamente occupando tutti gli spazi
di stiva disponibili, con migliaia di petroliere che in tutto
il mondo si ammassano lungo le coste dei principali paesi consumatori. I costi
di affitto delle compagnie trasportatrici nel frattempo stanno andando alle
stelle e vani sembrano essere i tentativi di costruire nuove super-petroliere (navi
in grado di trasportare circa 2 milioni di barili alla volta) in tempo per
riuscire a stivare per la produzione dei prossimi mesi.
Ben
presto il problema dell’immagazzinamento potrebbe diventare altrettanto grave
per il Brent, portando a una successiva conseguenza di questa situazione senza
precedenti nella storia dell’oil & gas: il congelamento del settore.
Di
fatto, in parte, ciò già sta avvenendo. I membri OPEC+, Russia e Arabia Saudita in primis, hanno
infatti già accettato di tagliare di quasi 10 milioni barili complessivi
la propria produzione, un taglio senza precedenti e che specialmente per la
Russia potrebbe rivelarsi estremamente costoso. I giacimenti russi sono infatti collocati
perlopiù a grandi profondità; chiuderli per un periodo
prolungato può quindi impattare gravemente sulla possibilità di rimetterli in
funzione una volta che hanno perso la pressione naturale necessaria per portare
il greggio in superficie.
Ma
oltre a OPEC+ c’è anche un altro importante attore del mercato che da qualche
giorno ha iniziato uno “shut-down” di fatto della propria produzione: lo
shale gas americano. Quella delle aziende statunitensi non è
però stata una decisione ponderata e concordata come quella dei paesi di OPEC+,
ma un obbligo dettato dalle leggi di domanda e offerta che stanno completamente
saturando non solo la domanda ma perfino la capacità di immagazzinamento del
loro principale mercato, ovvero gli USA. I giacimenti shale operativi sono scesi
del 40% dall’inizio della crisi Covid-19, e il numero
potrebbe calare ulteriormente.
Un
destino che potrebbe presto investire anche gli altri principali
produttori globali, compresi quelli che si sono già impegnati
in tagli cospicui come Arabia Saudita e Russia. Seppure il Brent sia esente, al
contrario del WTI, dall’obbligo di presa in carico del petrolio da parte
dell’acquirente, distanziando ulteriormente il mondo del greggio
“fisico” da quello del greggio “finanziario”, ben presto il
primo potrebbe irrompere a forza nel secondo, quando anche le ultime stive e le
ultime cisterne saranno ricolme, costringendo altri produttori a chiudere
definitivamente i rubinetti. Le conseguenze di un’operazione del genere –
anch’essa, tanto per cambiare, senza precedenti – sono imprevedibili e
potrebbero impattare gravemente le finanze di grandi paesi
produttori e delle grandi aziende del comparto. Chiudere
la produzione potrebbe infatti comportare danni materiali ben oltre la semplice
perdita dei profitti di vendita, e che potrebbero divenire incalcolabili per
quei giacimenti difficilmente regolabili, come quelli russi, che rischierebbero
di non poter rientrare più in funzione.
Covid-19, dopo averci mostrato
lo scenario di una pandemia globale, inedito da oltre un secolo, non smette
insomma di presentarci nuove situazioni impreviste e difficilmente
gestibili con gli strumenti utilizzati in tempi “normali”. Il
rischio di “shut-down” dell’intero comparto petrolifero ne è solo l’ultimo
esempio, le cui conseguenze sia economiche che politiche potrebbero rivelarsi,
come molte cose in questo periodo, del tutto imprevedibili.
Eugenio DACREMA
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