Com’è andata Tempo di Libri
È stato impossibile in questi giorni – e lo sarà ancora – ascoltare dei giudizi imparziali e completi su come sia andata Tempo di Libri, la nuova fiera dell’editoria organizzata a Rho, alla periferia di Milano. Tutti quelli che dicono la loro hanno qualche tipo di bias: ci sono quelli coinvolti nel Salone di Torino, ci sono i grossi editori milanesi intenzionati a impadronirsi di una fiera maggiore, ci sono le persone che hanno lavorato sodo a costruire TdL, ci sono gli editori grandi e piccoli che si schierano in cordate di timori e risentimenti, e quelli che devono fare i conti con i costi e gli impegni di due fiere così ravvicinate, ci sono i commentatori e giornalisti seminatori di zizzanie e catastrofismi (“il flop!”), ci sono i visitatori che si sono divertiti ma non hanno comprato un libro, e i visitatori che non hanno avuto voglia di andare a Rho, ci sono tra chi fa i libri amicizie, complicità, rivalità, e così via. In fondo alla fila c’è persino il Post che è stato generosamente ospitato durante TdL per gestire quattro incontri su come si fanno i libri, affollati e apprezzati, e quindi ha a sua volta un giudizio favorevole molto parziale.
Ma provo lo stesso, se vi fidate, a introdurre degli elementi di equilibrio nella discussione che animerà ancora per parecchio l’editoria italiana (e se tendete l’orecchio sentite in questi giorni un gran brusìo di mugugni insieme a sospiri di sollievo).
1. Non si giudica niente dalla prima puntata. La prima puntata serve a imparare, a capire gli sbagli, a occupare uno spazio, a partire. Lo sa chiunque faccia le cose, finge di non saperlo chiunque le guardi fare.
2. Come colpo d’occhio e impressione generale, TdL ha somigliato molto al Salone del Lingotto. Era ovvio invece aspettarsi che tutta questa alternativa e competizione proponesse un’identità che si mostrasse più diversa, originale, inventiva. Ma appunto, era la prima puntata.
3. La maggiore varietà degli incontri in programma (tantissimi, e con idee e approcci molto spesso non promozionali) non è stata sufficientemente comunicata e trasmessa. L’artificio delle lettere dell’alfabeto per descrivere una serie di temi, in quanto artificio, è risultato piuttosto sterile e leggero: alla fine per i visitatori il programma è risultato una lunga serie omogenea di eventi in cui individuare questo o quel nome noto o interessante.
4. C’è stata poca gente mercoledì e giovedì, meglio venerdì e domenica, tanta sabato, a occhio. Era il primo anno, la comunicazione generale – fuori dagli inserti culturali – si può migliorare, Rho non è Milano, e le date erano in mezzo a dei ponti in cui io ho persino trovato parcheggio sotto casa, per dire: era abbastanza impensabile che il giovedì pomeriggio (quando gli avversari di TdL si sono rumorosamente ma precocemente fregati le mani) ci fossero folle tra gli stand. I numeri non saranno comunque paragonabili nemmeno lontanamente a Torino (meno che mai quelli degli incassi agli stand): fra due anni invece sì, se si vogliono fare questi paragoni.
5. Delle cose pratiche sono state sbagliate: poca partecipazione delle scuole, poco lavoro per rendere più attraente Rho, poco lavoro in città, poca inventiva di comunicazione e di immagine. E spostare ad autunno – in maggiore relazione con Book City – è la cosa più costruttiva che i critici stanno proponendo, insieme a spostare in città.
6. Piccolo promemoria un po’ volgare per chi vuole fare i paragoni: Torino si fa con una gran quantità di soldi pubblici in più, rispetto a Milano.
7. Certo, due fiere di questo genere in uno stesso paese è una scelta abbastanza bizzarra e nata con una prepotenza da parte degli editori milanesi maggiori e dell’AIE, ma anche perché a Torino erano successi dei casini: la conseguenza è stata già una rinascita di Torino, ma di certo a Milano non possono darsene il merito, avevano altre intenzioni. Ma ormai è stato fatto: a dare un senso alla duplicazione potrebbe essere solo l’eventualità che una volta stabilizzate entrambe si dimostri che non si sono cannibalizzate ma che pubblico e ricavi sono cresciuti. Anche di questo si parlerà tra due o tre anni: nel frattempo chi detiene maggiori poteri nell’AIE merita le critiche di maggiore responsabilità in questo conflitto e in queste ambasce.
8. Organizzare Tempo di Libri in poco tempo e farlo assomigliare immediatamente in tutto a un consolidato Salone torinese costruito in decenni è stato un notevolissimo risultato per le persone che ci hanno lavorato, e che non meritano giudizi superficiali da osservatori in poltrona, né da concorrenti risentiti. Provateci voi.
2. Come colpo d’occhio e impressione generale, TdL ha somigliato molto al Salone del Lingotto. Era ovvio invece aspettarsi che tutta questa alternativa e competizione proponesse un’identità che si mostrasse più diversa, originale, inventiva. Ma appunto, era la prima puntata.
3. La maggiore varietà degli incontri in programma (tantissimi, e con idee e approcci molto spesso non promozionali) non è stata sufficientemente comunicata e trasmessa. L’artificio delle lettere dell’alfabeto per descrivere una serie di temi, in quanto artificio, è risultato piuttosto sterile e leggero: alla fine per i visitatori il programma è risultato una lunga serie omogenea di eventi in cui individuare questo o quel nome noto o interessante.
4. C’è stata poca gente mercoledì e giovedì, meglio venerdì e domenica, tanta sabato, a occhio. Era il primo anno, la comunicazione generale – fuori dagli inserti culturali – si può migliorare, Rho non è Milano, e le date erano in mezzo a dei ponti in cui io ho persino trovato parcheggio sotto casa, per dire: era abbastanza impensabile che il giovedì pomeriggio (quando gli avversari di TdL si sono rumorosamente ma precocemente fregati le mani) ci fossero folle tra gli stand. I numeri non saranno comunque paragonabili nemmeno lontanamente a Torino (meno che mai quelli degli incassi agli stand): fra due anni invece sì, se si vogliono fare questi paragoni.
5. Delle cose pratiche sono state sbagliate: poca partecipazione delle scuole, poco lavoro per rendere più attraente Rho, poco lavoro in città, poca inventiva di comunicazione e di immagine. E spostare ad autunno – in maggiore relazione con Book City – è la cosa più costruttiva che i critici stanno proponendo, insieme a spostare in città.
6. Piccolo promemoria un po’ volgare per chi vuole fare i paragoni: Torino si fa con una gran quantità di soldi pubblici in più, rispetto a Milano.
7. Certo, due fiere di questo genere in uno stesso paese è una scelta abbastanza bizzarra e nata con una prepotenza da parte degli editori milanesi maggiori e dell’AIE, ma anche perché a Torino erano successi dei casini: la conseguenza è stata già una rinascita di Torino, ma di certo a Milano non possono darsene il merito, avevano altre intenzioni. Ma ormai è stato fatto: a dare un senso alla duplicazione potrebbe essere solo l’eventualità che una volta stabilizzate entrambe si dimostri che non si sono cannibalizzate ma che pubblico e ricavi sono cresciuti. Anche di questo si parlerà tra due o tre anni: nel frattempo chi detiene maggiori poteri nell’AIE merita le critiche di maggiore responsabilità in questo conflitto e in queste ambasce.
8. Organizzare Tempo di Libri in poco tempo e farlo assomigliare immediatamente in tutto a un consolidato Salone torinese costruito in decenni è stato un notevolissimo risultato per le persone che ci hanno lavorato, e che non meritano giudizi superficiali da osservatori in poltrona, né da concorrenti risentiti. Provateci voi.
Intanto, andiamo a goderci il Salone di Torino, dove altre capaci persone stanno facendo altre ottime cose.
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