Mestiere: fotografare il paesaggio In occasione della mostra che il Palazzo delle Stelline di Milano dedica a Istanbul 05 010, abbiamo incontrato Gabriele Basilico. Per capire cosa significa, oggi, fare di mestiere il “fotografo di paesaggio”... |
Perché il fotografo di paesaggio è interessato alla città oggi? Sin dai miei lavori sulle fabbriche di Milano degli anni ’80, il principio ispiratore della mia ricerca è sempre stato che la forma dello spazio urbano possa rappresentare la forma del vivere. Dunque sono interessato da sempre a osservare quelle parti della città che si stanno modificando, come se queste fossero le membra del un corpo di un bambino che cresce: è questo un tentativo di leggere nel presente i segni del futuro. Parliamo del tuo metodo di lavoro sulla città. Quanto c’è di ingenuità e di progettualità nel tuo modo di rapportarti con la città? Secondo me il fotografo non può mai dimenticare la dimensione del flâneur che vaga nelle città catturando immagini, armato del bagaglio della sua curiosità. Personalmente non faccio mai uso esclusivo di quell’atteggiamento: al contrario, mi costringo nei vincoli della progettualità. L’approccio del flâneur resta vivo in me come mero istinto. Secondo me la fotografia di paesaggio implica la capacità di saper combinare intelligentemente i due approcci, ossia quello del flaneur e quello del fine ricercatore: spetta al fotografo sapere come dosarli. Dunque, l’esplorazione fisica dello spazio è fondamentale per il tuo lavoro... La fotografia di paesaggio che utilizza la macchina di grande formato e che cerca di rapportarsi al mondo in modo oggettivo si ottiene camminando e cercando di capire il luogo attraverso una percezione fisica complessiva, che include lo sguardo, il corpo, i piedi, i pensieri, le memorie. Dopo aver camminato a lungo riesci a capire quale è il punto in cui puoi lanciare la tua immagine: soltanto allora puoi fissare il cavalletto, e far partire il tuo sguardo. Non giri con la macchina sull’occhio, come protesi che dall’occhio si muove sulla realtà continua; al contrario, ti muovi interagendo con lo spazio. La sperimentazione fisica dello spazio fa la differenza. Com’è cambiato il tuo approccio alla città nel tempo, in sintonia con il cambiare della città contemporanea? Il lavoro degli ultimi anni mi ha condotto ad una riflessione obbligata: non è possibile camminare in strada alla Cartier-Bresson e fotografare quello che incontri casualmente. È la complessità della città contemporanea a costringerti a fare delle scelte. Non solo sei portato naturalmente a indirizzare il tuo sguardo verso alcuni fenomeni che più ti interessano, ma sei costretto a costruire una sovrastruttura ordinata di preparazione del lavoro che sovrapponi alla maglia della città, consapevole della parzialità del tuo punto di vista. Come modifichi il tuo approccio alla città a seconda delle caratteristiche del luogo? Le metodologie d’intervento in una città sono molto diverse, dipendono dalla dimensione e dalla natura del luogo. Quando non dispongo di fenomeni particolari da osservare, scelgo di fare un viaggio all’interno del tessuto della città. Ad esempio? Per un lavoro realizzato su Napoli ho preso in considerazione i due estremi della città: ho scelto di partire dalla Mostra d’Oltremare e ho costeggiato la città dal fronte mare; poi, addentrandomi nel centro storico, sono arrivato fino al Centro Direzionale. Ho congiunto A con B, percorrendo una traiettoria lineare. Quando, invece, mi trovo di fronte a una realtà più complessa, pongo sulla griglia della città una ragnatela di percorsi. Come si confronta con i modelli tradizionali di rappresentazione della città, ad esempio con il genere della veduta? I fotografi di paesaggio hanno sempre scattato delle vedute. Per me i due approcci visivi, quello di "uomo a livello stradale” che stabilisce dei punti vista dall’interno del tessuto urbano, e lo sguardo contemplativo di veduta dall’alto ad un certo momento del percorso di conoscenza di una città si sommano. Le due dimensioni sono diventate per me necessarie e complementari. Com’è cambiato il tuo lavoro di fotografo con l’introduzione della fotografia digitale? Nel mio lavoro non utilizzo fotocamere digitali. Questo non perché sia contrario all’uso, ma semplicemente perché conosco molto bene la tecnica che uso da trent’anni, ossia quella basata sull’utilizzo della pellicola. L’impiego delle tecniche di lavorazione digitale interviene nella fase di stampa, ossia quando ho in mano il negativo. Grazie a queste tecniche, gli interventi di controllo del colore, che prima si facevano in sede di camera oscura, si possono fare con maggiori garanzie di precisione e successo. È evidente che per altri l’introduzione delle tecniche digitali schiude le porte a un mondo totalmente nuovo. Non ti senti un po’ fuori dal tempo? Attenzione: il mio modo di guardare il mondo è limitato. Spesso perdi delle cose, però ne guadagni delle altre. Del resto, non si può avere tutto... articoli correlati La recensione della mostra milanese Basilico e Piranesi Basilico e Milano a cura di glenda cinquegrana pubblicato martedì 16 novembre 2010 |
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sabato 7 maggio 2011
Fotografia: interviste
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