venerdì 6 luglio 2012

‘O pulimmo, ‘o sciuscià, il lustrascarpe






I miei primi anni della mia vita li vissi in campagna  dove passavo le giornate intere a piedi scalzi  per cui non ero abituato all’uso delle scarpe. Le prime che ricordo furono quelle che mi comprarono per la prima comunione, altrimenti indossavo dei sandali che conservavano al piede tutto la libertà che il piede desiderava, ma erano adatti solamente ai periodi asciutti dell’anno mentre per l’autunno, l’inverno e primavera con la frequenza obbligatoria delle scuola dovetti abituarmi ad indossare nel periodo invernale e nelle giornate di pioggia stivali di gomma che erano diventati di largo uso dopo l’arrivo delle truppe di liberazione.

Cert’è che un bel giorno mi trovai ai piedi, quando pioveva, anche scarpe con collo alto, mentre mio padre indossava abitualmente un paio di scarpe e mia madre degli zoccoletti aperti o chiusi a seconda della stagione o scarpe che al rientro era d’obbligo lucidare prima di riporle dopo averle esentate dalla polvere e dal fango e da elementi che si attaccavano alle suole come le gomme americane, chewing gum" o cicles che dir si voglia portate anch’esse dai liberatori o altro calpestati involontariamente.

La pulizia delle scarpe mi era stata assegnata perché ero il più grande dei figli e avevo l’età per farlo. Era stato un apprendistato di qualche minuto, ma il lavoretto anche se non era gradevole era facile da sbrigare. Lo svolgevo volentieri, mentre mia madre si dedicava alla cucina o alla spesa, ma un lucida scarpe, ‘o pulimmo in napoletano, sciuscià, ecc. ecc lo vidi la prima volta a Piazza Monumento dalla parte della Cassa armonica un giorno che accompagnai mia madre a fare una compera.


L’apparecchiatura consisteva in una grossa poltrona dove si accomodava il cliente e due sostegni dove appoggiare i piedi debitamente separati e distanti tra loro per permettere all’operatore di compiere la sua attività senza avere intralci.

Le spazzole e il lucidi erano mantenuti all’interno del cassetto che costituiva la basse sulla quale  erano collocati i due poggia piedi.

Per evitare di imbrattare le calze del cliente con i prodotti per lucidare venivano usate delle sagome di cartone pressato che inseriti nelle scarpe senza alcun disagio per il cliente impedivano il contatto accidentale della spazzola con il calzino..

Il più delle volte si trattava di togliere dalla tomaia soltanto la polvere che vi si era accumulata durante il tragitto effettuato dal cliente. Il servizio veniva richiesto sempre prima che questi si presentasse in uno degli uffici della zona, altre volte perché il cliente non erano capace di farlo in prima persona ed altre volte solamente per mettersi in mostra in quei dieci minuti che l’operazione richiedeva.

C’era anche chi si faceva lucidare le scarpe per rilassarsi dieci minuti seduto in mancanza di panchine nelle vicinanze invece di impegnarsi presso il Caffè Gran Napoli con una consumazione che richiedeva tempi più lunghi e non era conveniente se non lo richiedeva un appuntamento.

Nella memoria del “Libero Ricercatore” ho trovato un nome “Lazzariello 'o pulimmo” che voglio annotare come testimonianza a Castellammare di Stabia di questa attività che sicuramente per qualche anno passò di padre in figlio, ma non mi aiuta a ricordare i tratti della persona la svolgeva e resta come un’ombra nella mia memoria.





L’attività non procurava grandi guadagni, la cifra per la prestazione era modesta, ma permetteva di portare a casa qualche lira che consentiva di affrontare la vita con maggiore dignità.

Una lucidata di scarpe non costava molto, ma non tutti se la potevano permettere. Un giorno, mentre aspettavo l’autobus che mi doveva riportare a casa assistetti ad una scenetta che era tragica e comica allo stesso tempo.

Durante il servizio al pulimmo gli capitò di sputare sulle scarpe dell’avventore per rimuovere qualcosa che non riusciva ad asportare. Il cliente lo guardò interdetto e contrariato apostrofandolo: - Ma che state facenne ?
Signo’, nun ve preoccupate ? M’è servuto pe levà na macchia !
Na macchia?
Eh! Na cacate ‘e gallina.
-Ah ! na cacata ‘e gallina !
Quando il pulimmo ultimò la sua opera, l’avventore gli chiese quanto gli doveva.
Cinquanta lire, come al solito.
Pe na sputazzata ? E si te sputo ‘nfaccia  pe t’’a lavà, quanto me daie ?
Per poco non finirono alle mani.
L’uomo gli lasciò le cinquanta lire rispondendogli: - Bell’o’, ma visto ogge e nun me vide cchiù!
‘O pulimmo a sua volta: - E tu quanno mugliereta te ne cacce ‘a dint’’o lietto, nun j’ a durmì ‘nzieme cu ‘e galline.

Non succedeva spesso, ma quando succedeva la cosa veniva raccontata per mesi, anzi qualcuno con una certa protervia andava d’’o pulimmo e gli chiedeva: - Allora, Rafè, comm’è chillu fatto d’’e galline?

Ma lui con la testa sotto facendo finta di non sentire continuava il suo lavoro cercando lo sguardo del cliente che, pur facendo finta di guardarsi intorno, osservava i suoi gesti che andavano veloci ora da sinistra ora da destra rendendo le tomaie uno specchio nel quale era difficile non perdersi se ti fermavi a guardarle.

Sulla sedia o trono, ante litteram,  era poggiato un cuscino imbottito e sui braccioli dei cuscinetti di cuoio che venivano puliti prima che il cliente si accomodasse e il cuscino rivoltato e sbattuto per alleggerirlo della polvere della strada.

Le spazzole erano diverse per i diversi colori delle scarpe, alcune di colore neutro per spazzolare quelle di camoscio e altre per quelle bianche.

I lucidi erano contenuti in scatole metalliche ch’erano come minino il doppio di quelle che compravamo per uso domestico.

Nei tempi morti lucidava quelle che gli portavano da casa per il quale combinava il prezzo col cliente in modo da invogliarlo e lasciarlo contento per non perdere quella grazia di dio che non solo lo teneva impegnato ma gli procurava un guadagno sicuro e duraturo.

Non so quando si ritirò dall’attività, ma tornando a Castellammare, come mi capita di tanto in tanto, non lo trovai più e nessuno mi seppe dire cosa era successo, mentre ci sono mestieri stagionali che continuano a resistere in quanto legati al commercio al minuto delle castagne, delle pannocchie di granoturco, delle fave, delle noci, ecc.ecc. anche se le norme sull’igiene dell’alimentazione cercano di fare a tutt’i costi la loro parte.

In altre parti del mondo invece il mestiere continua ad essere praticato come dimostrano le foto di repertorio rintracciate in Google.

E’ un mestiere umile che non si adatta a tutti, ma oltre alla sussistenza procura un rapporto umano di indubbio valore.

Nessun commento:

Posta un commento