La pittura di Lisa Zanatta Pistorio.
La pittura di questo secolo non é la
pittura di quest’artista che, pur avvalendosi delle libertà che l’arte ha
conquistato con gli sperimentalismi e le correnti che l’hanno attraversata,
possiede un animo fortemente poetico e sensibile al fascino del paesaggio, alle
problematiche esistenziali che da sempre
accompagnano l’uomo nella sua avventura terrena, al fascino della cultura, della conoscenza,
dell’avventura e alla suggestione del colore che ogni cielo e le tante
atmosfere del nostro pianeta sanno
proporre.
L’innumerevole galleria di fiori
sembra un vivaio dell’anima, perché le opere che li rappresentano suggeriscono
angoli dell’esistente e non situazioni isolate, attimi di vita di un cosmo che
sa elaborare malinconie e speranze. I
“Cimpillium selvatici” diventano così un percorso della nostra esistenza, come
se invece di guardare un quadro stessimo attraversando un sentiero di campagna,
di una collina, di una strada di periferia. Gli “Anturium rossi” si propongono
invece ora come quelle ferite che ci
fanno palpitare, ora come una molteplicità di cuori sempre in attesa che si
compia il miracolo della vita e tutto resti eternamente intatto. Il percorso
che questa pittura ci fa intraprendere non finisce dietro l’angolo di casa
nostra o meglio nella nostra pigrizia: “Le feluche” che l’artista ci fa
intravedere fra le canne sul fiume alludono a sensazioni colte nei suoi viaggi
o nei momenti più significativi della sua esistenza, ponendoli come fatti
irrinunciabili nel suo iter esistenziale ed artistico.
Bastano opere come “Ricordo di San
Valentino” e “Cimpellium gialli”, dove
il colore esplode e diventa luce pur nel
magma opaco del verde vescica o della terra bruciata che invece acquistano
sostanza e capacità espressiva, a testimoniare la validità di quest’artista che
merita una maggiore attenzione dentro e fuori dal sistema dell’arte.
“Cimpillium selvatici” testimonia, invece, l’equilibrio formale che l’artista é
capace di instaurare nell’opera quando il
colore é giocato con toni meno accesi, ma ugualmente vitali. La materia
resta vibrante e dal basso si muovono sensazioni coloristiche che si
concretizzano in alto con toni sommessi, ma ugualmente percepibili e godibili
nella loro essenza perché espressi e sottolineati nella loro realtà di fiori o
nei contrasti che la confusione vegetale determina. Il verde, colto in quasi
tutte le tonalità, non é mai banale, ma rappresenta pienamente nella sua
consistenza il groviglio di fili derba e le altre piante che stanno intorno al
fiore.
“Le rose di Montevecchia”
suggeriscono assieme alla “Finestra di Elena”,
una storia dalla trama soffusa di una malinconia quasi tangibile, anche
se le opere potrebbero scaturire da ben altre situazioni. Al loro interno il racconto é un fatto reale ed i personaggi
solo momentaneamente assenti. Le rose palpitano sugli steli, dentro al vaso,
pur disomogenee nei colori . La loro
vita continua a durare rinnovandosi nei sentimenti di chi li guarda. Ma il percorso
narrativo coglie immagini in ogni dove: nelle
prossimità della propria quotidianità, in giro per il mondo, annotandone
la gioia e lo stupore che da queste esperienze sono scaturite.
“Agapanthus” dagli scapi alti e
terminanti con ampie ombrella di fiori
azzurri, suggerisce bene il paesaggio africano dal quale trae origine.
Il cielo é tinto di rosso e la vegetazione intorno lievita nell’afa
pomeridiana. Rievocata con passione é un’atmosfera che sembra ritornare da un
tempo senza tempo, da uno spazio lontano che ha perso ogni limite, ogni confine
consegnadosi per sempre alla tela nel nome dell’arte.
Roma,
2O aprile I998 Gioacchino Ruocco
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