16 marzo 2017
Numeri da capogiro e diritti umani calpestati. La relazione tra il caporalato e i “ghetti” in provincia di Foggia è stata analizzata dal componente della segreteria provinciale della Cgil, Daniele Calamita, che negli ultimi anni ha girato tra i campi raccogliendo dati precisi sul fenomeno. Un lavoro meticoloso che ha permesso di ideare alcune proposte proprio nei giorni del “grande esodo” dal gran ghetto di Rignano Garganico ed in vista della stagione estiva che porterà in Capitanata circa 5mila migranti.
Un business da 38 milioni l’anno
Sono lontani i tempi del caporale-gabellotto della mafia siciliana, ma il sistema non si è arenato, anzi ha acquisito nuova linfa grazie ai migranti. “Il caporalato di oggi – spiega Calamita -, non si limita soltanto alla sfera del lavoro, ma nel caso dei nuovi schiavi, entra anche nella gestione pratica della loro vita, gestendo in aggiunta al lavoro, l’alimentazione, il trasporto, la residenzialità, il tempo libero”. Da una stima economica della Cgil, legata al solo pomodoro in provincia di Foggia, si evince che: “Analizzando i dati, se è vero che il solo pomodoro viene coltivato su circa 27.000 ettari e che ogni ettaro produce mediamente 1.000 quintali, si ottiene una produzione di circa 27.000.000 di quintali. Da questi, si sviluppano circa 9.000.000 di cassoni/binz (3 quintali di capienza). Considerando che tutti i migranti lavino sotto un caporale, e che il caporale riesca a speculare su ogni ‘proprio schiavo’ (con squadre di lavoro che arrivano anche a 100 lavoratori, dislocati su diverse aziende) da 1 a 2 euro a cassone, a seconda di quanto è produttivo il campo, la mole di illeciti legati alla sola raccolta va da 8 a 18 milioni di euro.
Se a questi aggiungiamo che per 60 giorni il caporale accompagna gli schiavi a lavoro (circa 5 euro a viaggio), totalizziamo altri 9 milioni di euro. Se aggiungiamo che i caporali gestiscono le abitazioni (ghetto), e ovviamente si fanno pagare il fitto (circa 200 euro mese a testa/posto letto), volendo considerare il solo ghetto di Rignano sono altri 500.000 euro. Se aggiungiamo ancora che i caporali speculano anche sul panino che forniscono ai propri schiavi con altri 2-3 euro di rincaro medio per singolo panino fornito, si generano altri 2,7 milioni di euro (sempre rapportato ai circa 15.000 migranti giorno per 60 giorni di lavoro). Se aggiungiamo anche che il caporale specula anche sulla ricarica elettrica del telefono cellulare (circa 3 euro a ricarica), considerando una stima media di una ricarica ogni 2 giorni, non ci discostiamo dalla realtà se diciamo che il caporalato specula un altro milione di euro. Poi ci sarebbe la speculazione sull’acqua potabile. In definitiva, su un guadagno dei caporali di 36 milioni di euro, dopo aver detratto tutte le speculazioni che operano sui propri schiavi, il lavoratore non arriva a guadagnare 400-500 euro in due mesi di lavoro, la restante parte è profitto esclusivo dei caporali e di quella piovra la cui testa è ben lungi dall’essere tagliata: quella degli imprenditori che manovrano i caporali”.
Il business farebbe ben comprendere le ragioni per le quali ci sarebbe l’interesse a mantenere in vita luoghi come il gran ghetto di Rignano. “Qui lo Stato è assente – spiega Calamita – e i caporali possono muoversi come meglio credono”. I caporali che durante il periodo estivo arrivano in Capitanata, sono gli stessi che si spostano nel resto del Paese e che muovono con sé frotte di lavoratori da adibire ai lavori di raccolta di ortaggi e frutta: “Si spostano in Calabria (raccolta delle arance), in Basilicata (raccolta del pomodoro e ortaggi), in Campania (raccolta di ortaggi e lavori in serra), nelle regioni del nord Italia (raccolta delle mele e di frutta invernale), stabilendo una sorta transumanza dello sfruttamento lavorativo e riutilizzando modelli di aggregazione tipo ghetti (Rosarno, Castel Volturno)”.
Ghetti e caporalato
In Capitanata esistono 6-7 ghetti, sono luoghi di aggregazione ed ad alta concentrazione di persone, generalmente si attestano ad una presenza minima di circa 2-300 persone in modo stanziale, che hanno un incremento costante di persone fino a raggiungere il momento di presenza massima, nei mesi estivi, verso luglio con presenze che arrivano anche a 5.000 persone. “Al loro interno – raccontano dal sindacato – convivono migranti in cerca di lavoro attraverso i caporali, prostitute gestite da mistres, spacciatori di droga, ristoranti spontanei, bar spontanei, spaccio di derrate alimentari, vendita di prodotti vari usati (reti e materassi usati gestiti da rumeni, vendita di pneumatici ed abbigliamento usato), meccanici, costruttori e riparatori di case.
I ghetti della Capitanata hanno diverse e variegate tipologie costruttive, si va da ghetti costruiti con case di cartone, plastica e materiali di risulta spesso tossici e cancerogeni (eternit) delle dimissioni di pochi metri quadri (10-20) con 9-10 persone per singola ‘casa’; a ghetti costituiti da agglomerati di case abbandonate di campagne ed occupate da migranti (circa 20-30 per singola casa); a strutture abbandonate dalla protezione civile (pista alle spalle del CARA) costituite da container (non abitativi) occupati da migranti (almeno 10-15 per singolo container) ove si assemblano circa 1.000 persone in modo stanziale. Voler risolvere i problemi legati dei ghetti, senza risolvere i problemi legati al lavoro ed al caporalato, significa non affrontare nella sua interezza quelle che sono le basi per la loro nascita, e quindi significa rendere inconcludente qualsiasi forma di sgombero militare”. La Regione Puglia, da diversi anni spende milioni di euro per l’acqua e i bagni chimici. Per l’ultimo “trasferimento” dei migranti ha investito 250mila euro. Ma il problema non è stato risolto nemmeno con i provvedimenti normativi nazionali e regionali. L’unico esempio positivo è stato il percorso “Capo Free-Ghetto Off” partito nel 2015, ma si è arenato dopo qualche tempo.
Cosa fare: le proposte della Cgil
Se la condizione di partenza è chiara, che la guerra si vince con il lavoro, ovvero riportando il settore primario a contesti di legalità, è evidente che l’azione deve necessariamente incentrarsi su questo che è il tassello centrale su cui muovere il cambiamento sociale. Esistono le liste di prenotazione, esiste la legge 28/06, esiste la legge sul caporalato (199), e comunque continua ad esistere il caporalato: è evidente che la sola forza repressiva non riesce da sola a cambiare il contesto. Va necessariamente abbinato il rispetto delle leggi ed al tempo stesso va stabilito un percorso di legalità, superando quelle che sono le speculazioni che insistono all’interno delle filiere agricole.
Speculazioni attuate anche a danno degli operatori agricoli. Basti analizzare quello che avviene nel pomodoro, dove a fronte di 6-8 cent/kg riconosciuti al singolo produttore il consumatore (molte volte ignaro) paga circa 1,5-2 euro/kg per il prodotto finito allo scaffale del supermercato (al produttore vengono riconosciuti da circa 6.000 a 8.000 euro/ettaro, ed il consumatore paga da 150.000 a 200.000 euro per un ettaro di prodotto confezionato allo scaffale del supermercato).
“In un passato recente, come sindacato – continua Calamita -, abbiamo provato a lanciare delle idee progettuali, che affrontassero e risolvessero il problema del caporalato ed al tempo stesso dessero una soluzione alle problematiche della residenzialità (ghetti). Con l’associazione Libera abbiamo lanciato l’idea progettuale ‘Eco-Villaggio’, che si basava sulla teoria architettonica del Agrarian Urbanism, ritornare a vivere la campagna, e costruire un villaggio con moduli abitativi costruiti dagli stessi migranti (formati e seguiti da tecnici italiani). Un villaggio basato e fondato sulla legalità, al cui interno dovevano esserci le istituzioni e le rappresentanze del mondo agricolo e sindacale e le associazioni di volontariato e che doveva agevolare l’incontro domanda offerta di lavoro eliminando la figura del caporale. Abbinata a questa idea vi era quella dell’agricoltura ad alto impatto sociale che consisteva nella messa a coltivazione dei terreni pubblici incolti. Un’altra idea era quella di sperimentare in provincia di Foggia il modello di Riace, provando a sperimentare in questo territorio un modello già usato in altre realtà e che ha dato dei risultati positivi in termini di ripopolamento di comuni piccolissimi in stato di semi abbandono. Un altra idea-esperienza, si basò sul forzare sulla responsabilità in solido delle OP, organizzazioni di prodotto, organismi intermedi che si interfacciano e commercializzano le produzioni dei singoli agricoltori e che sono l’interfaccia diretta con le industrie di trasformazione”.
Con una serie di domande e risposte il sindacato ha provato a dare la propria visione che riportiamo di seguito.
1.L’eco-villaggio e l’agricoltura ad alto impatto sociale potrebbero essere una soluzione di dignità ai ghetti?
Probabilmente si, potrebbe essere un luogo, basato e fondato sulla legalità, nel quale ogni singolo individuo potrebbe dare un contributo allo sviluppo ed alla sostenibilità economica dell’intero villaggio (ad impatto ambientale ed energetico zero), provando a puntare su quelle che sono le proprie esperienze e le proprie attitudini lavorative. Se vi sono persone che hanno avuto esperienze diverse, si potrebbero metterle a frutto nell’eco-vilaggio (sarti, panettieri, meccanici ecc…..) riducendo anche di molto quella che può essere la forza lavoro impiegata in agricoltura ed al tempo stesso sviluppare le competenze di tanti ragazzi (basti vedere le esperienze della sartoria sociale di batik dell’AUSER CGIL di Foggia e di Art Village di San Severo), creando anche possibilità di nascita di realtà imprenditoriali etniche. Quanto all’agricoltura ad alto impatto sociale, si potrebbero coltivare in Capitanata gli alimenti di base del regime alimentare africano, tutti adattabili al nostro clima: patate, cipolle, legumi (fagioli) e cous cous
2. Cosa potrebbe fare il mondo imprenditoriale agricolo?
Sicuramente, potrebbero passare dalle dichiarazioni di intenti ad atti pratici, potrebbero attivare i percorsi previsti nella legge 28/06, ristrutturare gli stabili di campagna ed utilizzarli per l’accoglienza dei lavoratori migranti, potrebbero chiamare direttamente i lavoratori (utilizzando le liste di prenotazione), potrebbero denunciare i caporali invece di chiamarli per reclutare la forza lavoro, potrebbero impegnarsi di più e meglio in percorsi di legalità, invece di essere soggetti indifferenti e di facciata rispetto a quello che succede, potrebbero isolare gli imprenditori scorretti espellendoli dal mondo della rappresentanza, invece di coprirli e far finta che tutto va bene per i lavoratori e che sono loro vittime.
3. Cosa potrebbero fare le industrie di trasformazione?
In primis, quando si stabilisce il prezzo di ritiro della materia prima potrebbero evitare di fare sempre trattative al ribasso, strozzando il settore primario. Potrebbero evitare di giocare sullo scarto produzione (che spesso arriva e supera anche il 50% dell’intero carico), potrebbero evitare di speculare sul settore primario (sotto mille sfaccettature), arrivando anche a scaricare nei terreni i residui della lavorazione del pomodoro ed in fine potrebbero valorizzare le produzioni etiche riconoscendo qualche centesimo al kg in più a chi rispetta i diritti contrattuali (non sulla carta ma nei fatti), diventando attori dello sviluppo e della lotta al caporalato. Invece, usualmente gli si sente dire che non sono responsabili di quello che succede fuori dai loro cancelli. In aggiunta potrebbero ritirare la materia prima con la formula franco raccolta e quindi provvedere direttamente loro alle fasi di raccolta del prodotto, rispettando le norme contrattuali ed evitando di rivolgersi ai caporali.
4. Cosa potrebbe fare la Grande e Media Distribuzione Organizzata?
Inevitabilmente evitare campagne di sconti e ribasso pre campagna. Potrebbero anche rinunciare a 2-3 centesimi di profitto (speculativo) per ogni barattolo di pomodoro (ammonterebbe a circa 4-6 centesimi al kg in più agli attuali 6-8 cent/kg), risorse che potrebbero essere spostate verso progetti mirati di accoglienza e lavoro etico e dignitoso. Potrebbero prevedere spazi espositivi dedicati a linee certificate e sicure “Caporalato Free”, questa operazione, considerando una produzione media territoriale di circa 27 milioni di kg (27.000 ettari coltivati per 1.000 quintali/ettaro), che in termini pratici significa circa 67.500.000 di barattoli da 400 gr, si potrebbero generare dai 135 ai 203 milioni di euro.
5. Cosa potrebbero fare le organizzazioni sindacali?
Riutilizzare strumenti già previsti in passato nella contrattazione collettiva e che riguardavano le grandi campagne di raccolta, tipo le convenzioni (assunzioni plurime con diversi datori di lavoro), continuare il percorso sulle liste di prenotazione (provando ad iscrivere tutti i lavoratori migranti e non), continuare a farsi promotori di idee progettuali che possono migliorare il contesto lavorativo e sociale, continuare ad essere di sprono al mondo imprenditoriale e delle istituzioni sulle cose da fare, continuare a farsi promotori di un idea di cambio del modello di sviluppo agricolo, continuare a pressare le industrie di trasformazione, le OP e tutti i soggetti intermedi della filiera sulle loro responsabilità, continuare a sviluppare vertenzialità li dove si manifesta la negazione dei diritti.
6. Cosa potrebbero e dovrebbero fare le istituzioni locali, regionali e nazionali? E l’Europa?
Ascoltare le istanze che vengono dal territorio, e con esse stabilire percorsi concreti di risoluzione delle problematiche, essere vicini ai cittadini, ridare fiducia ai corpi intermedi e con essi attuare la vera concertazione (non dichiarata ma fatta). Cose molto semplici, che sempre più spesso sono totalmente inesistenti e/o sporadiche e che mai si basano sull’ascolto e sulla concertazione, ma che spesso sono la ratifica di decisioni, che spesso passano sulla pelle della povera gente. L’Europa, potrebbe svolgere una seria ed importante funzione, attraverso le norme fondamentali che ogni singolo stato è obbligato a rispettare. Un esempio? Potrebbe varare l’obbligo che in etichetta assieme alla tracciabilità del prodotto va riportata la tracciabilità dei costi/prezzi. Quando si prova ad analizzare i profitti interni alle varie filiere produttive, puntualmente si entra in zone d’ombra dalle quali difficilmente si riesce ad uscire. Se il pomodoro viene pagato a 6-8 centesimi/kg al settore primario, come mai il singolo consumatore allo scaffale lo paga 1,5-2 euro/kg. Chi ci guadagna all’interno della filiera? chi specula sulla pelle dei lavoratori?
7. Cosa potrebbero fare i consumatori?
Molto, anzi moltissimo, molto di più di quello che possono fare tutti gli altri attori. Il cambiamento vero e la lotta al caporalato e ai ghetti, passa necessariamente attraverso la forza e la coscienza collettiva. Che lo vogliamo o no, noi siamo quelli che possiamo sconfiggere il caporalato, noi siamo quelli che con il nostro fare quotidiano generiamo e tolleriamo che vi siano persone sfruttate, schiavizzate e maltrattate. Se la collettività non fosse così indifferente a quello che avviene intorno a noi ed iniziasse a pretendere diritti certi per tutti, questo Paese potrebbe cambiare in meglio. Le lotte del passato per i diritti sembrano lontane anni luce dall’attualità, sembra che ormai non esistano più classi sociali contrapposte, sembra che non vi sia più bisogno di lottare per i propri diritti, ma purtroppo non è cosi e molte lotte sono ancora fortemente presenti e meritano di essere fatte, non solo per i migranti ma per noi stessi e per i nostri figli ed il loro futuro che debba basarsi sul rispetto e sulla dignità e non sullo sfruttamento e lo schiavismo. Questa può anche essere la strada che porta ad un ritorno dei lavoratori italiani all’agricoltura, ormai considerato da molti un lavoro solo per lavoratori migranti: si tende a tollerare che un altro essere umano possa essere sfruttato.