lunedì 3 agosto 2020

CORONAVIRUS IN RUSSIA: GUERRA AL CONTAGIO O ALL’INFORMAZIONE ?

CORONAVIRUS IN RUSSIA: GUERRA AL CONTAGIO O ALL’INFORMAZIONE ?

Eleonora Tafuro Ambrosetti – 20 marzo 2020

Un virus letale emerse all’improvviso in una regione, propagandosi rapidamente a livello globale. Mentre i medici si affannavano a cercarne le origini e, soprattutto, la cura, una teoria si faceva strada in tutto il mondo e si consolidava soprattutto in certi ambienti: il virus era in realtà il prodotto di una ricerca militare americana segreta volta a sviluppare una potente arma biologica.

Suona familiare? Questa teoria del complotto è alla base dell’operazione INFEKTION, campagna di disinformazione – probabilmente la più famosa – sull'HIV/AIDS orchestrata dal KGB, il servizio di intelligence sovietico all'inizio degli anni '80. Secondo il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America e la task force East StratCom del Servizio europeo per l'azione esterna, ripresi da vari media italiani e internazionali, oggi ci troveremmo di fronte allo stesso sforzo mirato e sistematico della Russia di diffondere disinformazione, stavolta sul coronavirus. La Russia è infatti accusata di pubblicare in Europa notizie false sul coronavirus, con lo scopo di destabilizzare i paesi europei, seminare il panico e la sfiducia nei cittadini e rendere più difficile la gestione della pandemia. Anche stavolta l’origine del virus sarebbero i laboratori statunitensi o britannici. Una strategia apparentemente coerente con l'uso di teorie cospirativiste da parte di canali governativi russi quali RT come uno strumento politico nel contesto della rivalità tra Russia e Occidente.

Le fake news sul Covid-19 non provengono, però, solamente dalla Russia. Anche alcuni media iraniani legati al governo, come PressTV – un servizio di notizie in inglese e francese – stanno sostenendo la teoria che il coronavirus sia un'arma biologica prodotta dagli USA. In Turchia, Fatih Erbakan, un predicatore e politico islamista vicino al presidente Recep Tayyip Erdogan, ha affermato pubblicamente che il sionismo potrebbe giocare un ruolo nella diffusione del coronavirus. In Italia, le “bufale” nostrane più disparate sul coronavirus si diffondono su diversi canali, tra cui WhatsApp: dal complottismo che vede le case farmaceutiche produttrici di vaccini come responsabili del virus ai rimedi o regimi alimentari miracolosi che donano immunità, il panorama italiano è segnato dalle numerose notizie false sulla pandemia.

Sebbene sia semplice identificare notizie false o tendenziose emesse dai media tradizionali, ben più difficile è valutare l’origine delle fake news sui social.

Ad esempio, nel caso delle già menzionate accuse del Dipartimento di Stato USA alla Russia, alcune grandi aziende come Facebook e Twitter inizialmente hanno avuto difficoltà a ottenere copie dei rapporti del governo sulla questione. Le aziende ora dispongono di tali informazioni, ma Facebook ha chiesto al governo ulteriori prove a sostegno delle sue affermazioni. Nel frattempo, Twitter afferma di non aver trovato prove significative di sforzi coordinati per diffondere disinformazione relativa al coronavirus sul suo sito. Come sostiene Samuele Dominioni, dell’Osservatorio Cybersecurity dell’ISPI, quanto emerso fino ad ora fa pensare ad una operazione di (dis)informazione classica piuttosto che ad una campagna cibernetica come accaduto in altre occasioni.

Più che la destabilizatsiya (destabilizzazione) dell’Occidente, sembra sia la stabilità interna quella che interessa maggiormente al Cremlino al momento. Alcune notizie false sul virus appaiono principalmente destinate al consumo interno, al fine di suscitare sentimenti anti-occidentali e spostare la responsabilità sull'Occidente nel caso in cui le autorità russe dovessero dimostrarsi incapaci di fermare la diffusione dell'epidemia in patria.

Come afferma[1] Samantha Berkhead, news editor del Moscow Times, il governo russo sta in effetti proiettando un'immagine di stabilità e controllo per i propri cittadini: il presidente Vladimir Putin ha affermato che il virus è "sotto controllo" e ha sollecitato i russi a non farsi prendere dal panico e a continuare la propria vita di sempre. Allo stesso tempo, il governo sta attivamente scoraggiando le persone dall'ottenere informazioni sul virus da fonti che non siano quelle governative. Lo stesso Putin ha ripetutamente sottolineato i pericoli delle fake news sul coronavirus, contro cui Mosca starebbe combattendo anche attraverso l'Intelligenza Artificiale (AI). Secondo Berkhead, ci sarebbe dunque una sorta di “ciclo vizioso della sfiducia”: il governo non si fida dei cittadini e della loro capacità di cercare la verità da soli, mentre i cittadini non si fidano delle stime del governo.

D’altronde, come classificare il numero degli infetti e delle vittime del virus è oggetto di un acceso dibattito, e non solo in Russia: cambiamenti nella metodologia del rilevamento delle vittime del virus, attualmente non uniformi a livello globale, possono portare a numeri molto diversi e a accuse nemmeno tante velate di truccare le statistiche, come quelle avanzate da membri del partito di estrema destra Fratelli d’Italia alla Germania.

Il fenomeno della disinformazione nell’attuale contesto della pandemia non è dunque un fenomeno nuovo. Tuttavia, esso non riguarderebbe dunque solo la Russia, e neanche la destabilizzazione dell’Occidente sembra essere l’obiettivo primario delle fake news riconducibili a media governativi russi. Il comportamento del governo russo sembra piuttosto rispondere alla logica della ricerca di nemici esterni contro i quali la popolazione del paese e i suoi leader rafforzano il loro senso di identità di gruppo (la “dimensione esterna” del populismo). Una logica utile anche nel contesto del prossimo referendum sui cambiamenti costituzionali che, se approvati come pochi dubitano, manterrebbero Putin al potere fino al 2036. 

[1] conversazione con l’autrice




 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Chiuso per Covid”. Potrebbe riassumersi più o meno così lo spettro che alberga ormai da settimane nelle menti di molti operatori del settore oil & gas. Alle prese con uno dei più grandi crolli di domanda petrolifera della storia e, come se non bastasse, con gli effetti della guerra dei prezzi tra Arabia Saudita e Russia, il mercato petrolifero si trova a vivere un presente senza precedenti e a guardare al futuro con crescente preoccupazione. Crollo della domanda e improvviso aumento dell’offerta sono emersi come due fattori che, combinati, potrebbero presto lasciare sul terreno una vittima illustre e fondamentale per la sopravvivenza dell’intero settore fino alla ripresa (si spera) della vita e dei trasporti come ce li ricordiamo prima del coronavirus: la capacità globale di immagazzinamento.

L’aumento drammatico della produzione proprio nei mesi di peggiore crollo della domanda ha portato i magazzini di greggio di tutto il mondo a riempirsi come mai avvenuto nell’intera storia del settore. Il primo effetto drammatico l’abbiamo visto sul mercato del WTI (West Texas Intermediate), il contratto utilizzato per l’interscambio di greggio negli Stati Uniti. A rendere questo titolo particolarmente soggetto a improvvise fiammate di svalutazione in questa fase sono infatti le abituali modalità di trasporto e immagazzinamento negli USA: il petrolio americano passa attraverso pipeline nelle quali il greggio non può essere “parcheggiato”, ma da dove deve essere necessariamente convogliato in cisterne di immagazzinamento apposite. Nel caso degli USA, queste ultime si concentrano nella cittadina di Cushing, Oklahoma, e la loro saturazione è prevista per l’inizio di maggio. Ed è stata proprio la chiusura dei contratti di maggio, che di solito avviene nell’ultima settimana di contrattazioni del mese precedente, a portare il panico tra gli operatori, atterriti all’idea di dover prendere fisicamente in carico del greggio impossibile da immagazzinare. Ora la vera domanda è se dobbiamo aspettarci di assistere a ondate di panico analoghe al termine di ogni mese di contrattazioni, o ad una stasi sostanziale degli scambi.

Leggermente più rosea, ma probabilmente ancora per poco, è la situazione per il greggio scambiato all’interno del sistema del Brent, il tipo di contratto utilizzato in Europa. Il Brent viaggia infatti prevalentemente via mare, e al contrario del WTI può effettivamente essere “parcheggiato” quasi indefinitamente sulle petroliere oltre che essere immagazzinato nelle cisterne a terra. L’eccessiva produzione sta però rapidamente occupando tutti gli spazi di stiva disponibili, con migliaia di petroliere che in tutto il mondo si ammassano lungo le coste dei principali paesi consumatori. I costi di affitto delle compagnie trasportatrici nel frattempo stanno andando alle stelle e vani sembrano essere i tentativi di costruire nuove super-petroliere (navi in grado di trasportare circa 2 milioni di barili alla volta) in tempo per riuscire a stivare per la produzione dei prossimi mesi.

Ben presto il problema dell’immagazzinamento potrebbe diventare altrettanto grave per il Brent, portando a una successiva conseguenza di questa situazione senza precedenti nella storia dell’oil & gas: il congelamento del settore.

Di fatto, in parte, ciò già sta avvenendo. I membri OPEC+, Russia e Arabia Saudita in primis, hanno infatti già accettato di tagliare di quasi 10 milioni barili complessivi la propria produzione, un taglio senza precedenti e che specialmente per la Russia potrebbe rivelarsi estremamente costoso. I giacimenti russi sono infatti collocati perlopiù a grandi profondità; chiuderli per un periodo prolungato può quindi impattare gravemente sulla possibilità di rimetterli in funzione una volta che hanno perso la pressione naturale necessaria per portare il greggio in superficie.

Ma oltre a OPEC+ c’è anche un altro importante attore del mercato che da qualche giorno ha iniziato uno “shut-down” di fatto della propria produzione: lo shale gas americano. Quella delle aziende statunitensi non è però stata una decisione ponderata e concordata come quella dei paesi di OPEC+, ma un obbligo dettato dalle leggi di domanda e offerta che stanno completamente saturando non solo la domanda ma perfino la capacità di immagazzinamento del loro principale mercato, ovvero gli USA. I giacimenti shale operativi sono scesi del 40% dall’inizio della crisi Covid-19, e il numero potrebbe calare ulteriormente.

Un destino che potrebbe presto investire anche gli altri principali produttori globali, compresi quelli che si sono già impegnati in tagli cospicui come Arabia Saudita e Russia. Seppure il Brent sia esente, al contrario del WTI, dall’obbligo di presa in carico del petrolio da parte dell’acquirente, distanziando ulteriormente il mondo del greggio “fisico” da quello del greggio “finanziario”, ben presto il primo potrebbe irrompere a forza nel secondo, quando anche le ultime stive e le ultime cisterne saranno ricolme, costringendo altri produttori a chiudere definitivamente i rubinetti. Le conseguenze di un’operazione del genere – anch’essa, tanto per cambiare, senza precedenti – sono imprevedibili e potrebbero impattare gravemente le finanze di grandi paesi produttori e delle grandi aziende del comparto. Chiudere la produzione potrebbe infatti comportare danni materiali ben oltre la semplice perdita dei profitti di vendita, e che potrebbero divenire incalcolabili per quei giacimenti difficilmente regolabili, come quelli russi, che rischierebbero di non poter rientrare più in funzione.

Covid-19, dopo averci mostrato lo scenario di una pandemia globale, inedito da oltre un secolo, non smette insomma di presentarci nuove situazioni impreviste e difficilmente gestibili con gli strumenti utilizzati in tempi “normali”. Il rischio di “shut-down” dell’intero comparto petrolifero ne è solo l’ultimo esempio, le cui conseguenze sia economiche che politiche potrebbero rivelarsi, come molte cose in questo periodo, del tutto imprevedibili.

 

 

 


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