CORONAVIRUS IN RUSSIA: GUERRA AL
CONTAGIO O ALL’INFORMAZIONE ?
Eleonora Tafuro Ambrosetti – 20
marzo 2020
Un virus letale emerse
all’improvviso in una regione, propagandosi rapidamente a livello globale.
Mentre i medici si affannavano a cercarne le origini e, soprattutto, la cura,
una teoria si faceva strada in tutto il mondo e si consolidava soprattutto in
certi ambienti: il virus era in realtà il prodotto di una ricerca
militare americana segreta volta a sviluppare una potente arma
biologica.
Suona familiare? Questa teoria
del complotto è alla base dell’operazione INFEKTION, campagna di disinformazione –
probabilmente la più famosa – sull'HIV/AIDS orchestrata dal KGB, il servizio di
intelligence sovietico all'inizio degli anni '80. Secondo il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti
d’America e la task force East StratCom del Servizio europeo per
l'azione esterna, ripresi da vari media italiani e internazionali, oggi ci troveremmo di fronte allo
stesso sforzo mirato e sistematico della Russia di diffondere
disinformazione, stavolta sul coronavirus. La Russia è infatti accusata di
pubblicare in Europa notizie false sul coronavirus, con lo scopo di destabilizzare
i paesi europei, seminare il panico e la sfiducia nei cittadini e rendere
più difficile la gestione della pandemia. Anche stavolta l’origine del virus
sarebbero i laboratori statunitensi o britannici. Una strategia apparentemente
coerente con l'uso di teorie cospirativiste da
parte di canali governativi russi quali RT come uno strumento politico
nel contesto della rivalità tra Russia e Occidente.
Le fake news sul
Covid-19 non provengono, però, solamente dalla Russia. Anche alcuni media
iraniani legati al governo, come PressTV – un servizio di notizie in inglese e
francese – stanno sostenendo la teoria che il
coronavirus sia un'arma biologica prodotta dagli USA. In Turchia, Fatih
Erbakan, un predicatore e politico islamista vicino al presidente Recep Tayyip
Erdogan, ha affermato pubblicamente che il sionismo
potrebbe giocare un ruolo nella diffusione del coronavirus. In Italia, le “bufale” nostrane più disparate sul
coronavirus si diffondono su diversi canali, tra cui WhatsApp: dal complottismo che vede le case
farmaceutiche produttrici di vaccini come responsabili del virus ai rimedi o
regimi alimentari miracolosi che donano immunità, il panorama italiano è
segnato dalle numerose notizie false sulla pandemia.
Sebbene sia
semplice identificare notizie false o tendenziose emesse dai media
tradizionali, ben più difficile è valutare l’origine delle fake news
sui social.
Ad esempio, nel caso delle già menzionate accuse
del Dipartimento di Stato USA alla Russia, alcune grandi aziende come Facebook
e Twitter inizialmente hanno avuto difficoltà a ottenere copie dei rapporti del
governo sulla questione. Le aziende ora dispongono di tali informazioni, ma
Facebook ha chiesto al governo ulteriori prove a sostegno delle sue
affermazioni. Nel frattempo, Twitter afferma di non aver trovato prove
significative di sforzi coordinati per diffondere disinformazione relativa
al coronavirus sul suo sito. Come sostiene Samuele Dominioni, dell’Osservatorio
Cybersecurity dell’ISPI, quanto emerso fino ad ora fa pensare ad una
operazione di (dis)informazione classica piuttosto che ad una campagna
cibernetica come accaduto in altre occasioni.
Più che la destabilizatsiya (destabilizzazione)
dell’Occidente, sembra sia la stabilità interna quella che interessa
maggiormente al Cremlino al momento. Alcune notizie false sul virus appaiono principalmente destinate
al consumo interno, al fine di suscitare sentimenti anti-occidentali e
spostare la responsabilità sull'Occidente nel caso in cui le autorità russe
dovessero dimostrarsi incapaci di fermare la diffusione dell'epidemia in
patria.
Come afferma[1] Samantha Berkhead, news editor
del Moscow Times, il governo russo sta in effetti proiettando un'immagine
di stabilità e controllo per i propri cittadini: il presidente
Vladimir Putin ha affermato che il virus è "sotto controllo" e ha
sollecitato i russi a non farsi prendere dal panico e a continuare la propria
vita di sempre. Allo stesso tempo, il governo sta attivamente scoraggiando le
persone dall'ottenere informazioni sul virus da fonti che non siano quelle
governative. Lo stesso Putin ha ripetutamente sottolineato i pericoli
delle fake news sul coronavirus, contro cui Mosca
starebbe combattendo anche attraverso
l'Intelligenza Artificiale (AI). Secondo Berkhead, ci sarebbe dunque una
sorta di “ciclo vizioso della sfiducia”: il governo non si fida dei
cittadini e della loro capacità di cercare la verità da soli, mentre i
cittadini non si fidano delle stime del governo.
D’altronde, come classificare il
numero degli infetti e delle vittime del virus è oggetto di un acceso
dibattito, e non solo in Russia: cambiamenti nella metodologia del
rilevamento delle vittime del virus, attualmente non uniformi a livello
globale, possono portare a numeri molto diversi e a accuse nemmeno tante velate
di truccare le statistiche, come quelle avanzate da membri del partito di
estrema destra Fratelli d’Italia alla Germania.
Il fenomeno della disinformazione nell’attuale contesto della pandemia non è dunque un fenomeno nuovo. Tuttavia, esso non riguarderebbe dunque solo la Russia, e neanche la destabilizzazione dell’Occidente sembra essere l’obiettivo primario delle fake news riconducibili a media governativi russi. Il comportamento del governo russo sembra piuttosto rispondere alla logica della ricerca di nemici esterni contro i quali la popolazione del paese e i suoi leader rafforzano il loro senso di identità di gruppo (la “dimensione esterna” del populismo). Una logica utile anche nel contesto del prossimo referendum sui cambiamenti costituzionali che, se approvati come pochi dubitano, manterrebbero Putin al potere fino al 2036.
[1] conversazione
con l’autrice
“Chiuso per Covid”. Potrebbe riassumersi più o meno così lo
spettro che alberga ormai da settimane nelle menti di molti operatori del
settore oil & gas. Alle prese con uno dei
più grandi crolli di domanda petrolifera della storia e,
come se non bastasse, con gli effetti della guerra dei prezzi tra Arabia
Saudita e Russia, il mercato petrolifero si trova a vivere un presente senza precedenti
e a guardare al
futuro con crescente preoccupazione. Crollo della domanda e
improvviso aumento dell’offerta sono emersi come due fattori che, combinati,
potrebbero presto lasciare sul terreno una vittima illustre e fondamentale per
la sopravvivenza dell’intero settore fino alla ripresa (si spera) della vita e dei
trasporti come ce li ricordiamo prima del coronavirus: la
capacità globale di immagazzinamento.
L’aumento drammatico della produzione proprio nei mesi di
peggiore crollo della domanda ha portato i magazzini
di greggio di tutto il mondo a riempirsi come mai avvenuto
nell’intera storia del settore. Il primo effetto drammatico l’abbiamo visto sul mercato del
WTI (West Texas Intermediate), il contratto utilizzato per
l’interscambio di greggio negli Stati Uniti. A rendere questo titolo
particolarmente soggetto a improvvise fiammate di svalutazione in questa fase
sono infatti le abituali modalità di trasporto e immagazzinamento negli USA: il
petrolio americano passa attraverso pipeline nelle quali il greggio non può
essere “parcheggiato”, ma da dove deve essere necessariamente convogliato in
cisterne di immagazzinamento apposite. Nel caso degli USA, queste ultime si
concentrano nella cittadina di Cushing, Oklahoma, e la loro saturazione è prevista per
l’inizio di maggio. Ed è stata proprio la chiusura dei
contratti di maggio, che di solito avviene nell’ultima settimana di
contrattazioni del mese precedente, a portare il panico tra gli operatori,
atterriti all’idea di dover prendere fisicamente in carico del greggio
impossibile da immagazzinare. Ora la vera domanda è se dobbiamo aspettarci di
assistere a ondate di panico analoghe al termine di ogni mese di
contrattazioni, o ad una stasi sostanziale degli scambi.
Leggermente più rosea, ma probabilmente ancora per poco, è la
situazione per il greggio scambiato all’interno del sistema del Brent, il tipo di contratto utilizzato
in Europa. Il Brent viaggia infatti prevalentemente via mare, e
al contrario del WTI può effettivamente essere “parcheggiato” quasi
indefinitamente sulle petroliere oltre che essere immagazzinato nelle cisterne
a terra. L’eccessiva produzione sta però rapidamente occupando tutti gli spazi di stiva
disponibili, con migliaia di petroliere che in tutto il mondo
si ammassano lungo le coste dei principali paesi consumatori. I costi di
affitto delle compagnie trasportatrici nel frattempo stanno andando alle stelle
e vani sembrano essere i tentativi di costruire nuove super-petroliere (navi
in grado di trasportare circa 2 milioni di barili alla volta) in tempo per
riuscire a stivare per la produzione dei prossimi mesi.
Ben presto il problema dell’immagazzinamento potrebbe diventare
altrettanto grave per il Brent, portando a una successiva conseguenza di questa
situazione senza precedenti nella storia dell’oil & gas: il congelamento del settore.
Di fatto, in parte, ciò già sta avvenendo. I membri
OPEC+, Russia e Arabia Saudita in primis, hanno infatti già accettato di
tagliare di quasi 10 milioni barili complessivi la propria
produzione, un taglio senza precedenti e che specialmente per la Russia
potrebbe rivelarsi estremamente costoso. I giacimenti russi sono infatti collocati perlopiù a grandi profondità;
chiuderli per un periodo prolungato può quindi impattare gravemente sulla
possibilità di rimetterli in funzione una volta che hanno perso la pressione naturale
necessaria per portare il greggio in superficie.
Ma oltre a OPEC+ c’è anche un altro importante attore del
mercato che da qualche giorno ha iniziato uno “shut-down” di fatto della
propria produzione: lo
shale gas americano. Quella delle aziende statunitensi non è
però stata una decisione ponderata e concordata come quella dei paesi di OPEC+,
ma un obbligo dettato dalle leggi di domanda e offerta che stanno completamente
saturando non solo la domanda ma perfino la capacità di immagazzinamento del loro
principale mercato, ovvero gli USA. I giacimenti shale operativi sono scesi del 40% dall’inizio
della crisi Covid-19, e il numero potrebbe calare ulteriormente.
Un destino che potrebbe presto investire anche gli altri principali
produttori globali, compresi quelli che si sono già impegnati
in tagli cospicui come Arabia Saudita e Russia. Seppure il Brent sia esente, al
contrario del WTI, dall’obbligo di presa in carico del petrolio da parte
dell’acquirente, distanziando ulteriormente il mondo del greggio “fisico” da quello del greggio
“finanziario”, ben presto il primo potrebbe irrompere a forza
nel secondo, quando anche le ultime stive e le ultime cisterne saranno ricolme,
costringendo altri produttori a chiudere definitivamente i rubinetti. Le
conseguenze di un’operazione del genere – anch’essa, tanto per cambiare, senza
precedenti – sono imprevedibili e potrebbero impattare gravemente le finanze di
grandi paesi produttori e delle grandi aziende del
comparto. Chiudere la produzione potrebbe infatti comportare danni materiali
ben oltre la semplice perdita dei profitti di vendita, e che potrebbero
divenire incalcolabili per quei giacimenti difficilmente regolabili, come
quelli russi, che rischierebbero di non poter rientrare più in funzione.
Covid-19,
dopo averci mostrato lo scenario di una pandemia globale, inedito da oltre un
secolo, non smette insomma di presentarci nuove situazioni impreviste e difficilmente gestibili con
gli strumenti utilizzati in tempi “normali”. Il rischio di
“shut-down” dell’intero comparto petrolifero ne è solo l’ultimo esempio, le cui
conseguenze sia economiche che politiche potrebbero rivelarsi, come molte cose
in questo periodo, del tutto imprevedibili.
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