“Sono ignorante. Non mi vergogno. Sono cresciuto a Scampia: papà lavorava anche 18 ore al giorno per garantirci una vita quasi normale. Poi una leucemia fulminante lo ha stroncato in due mesi. Aveva 29 anni, mia mamma 27 e io quasi 10. Sul letto di morte teneva stretto i miei 3 fratelli, tutti più piccoli. Stavo sulla porta, cercavo di non piangere. Da lontano mi ha fatto un cenno con la mano: diventavo il capofamiglia, altro che studiare. E infatti sbaglio i congiuntivi. Comunque, senza lo stipendio di papà siamo precipitati in miseria. Per mesi la mia cena è stata latte e pane duro. Saremmo finiti in braccio alla camorra, sempre in cerca di manovalanza, senza due miracoli”.
“Mio padre si chiamava Enzo. Era fissato con il calcio: sognava di vedermi al San Paolo con la maglia del Napoli e così mi portò a scuola calcio. Avevo 9 anni, e ricordo che papà parlò chiaro: lo volete? D’accordo, ma sappiate che io non ho un euro per pagargli la retta. Dopo la sua morte, a 11 anni, ho fatto il provino a Marianella e il Napoli mi prese. All’epoca mia madre era disoccupata, al massimo faceva i servizi a casa di alcune famiglie. Oltre a me dovevano mangiare anche i miei quattro fratelli ed essendo il maggiore decisi di smettere con il calcio per lavorare: avevo 14 anni. Spesso facevo il giro dei parenti per un po’ d’aiuto: è stata dura. Molto dura. Io abito a Scampia, la situazione non è facile. Sì, qualcuno ha provato ad avvicinarmi, ma io ho sempre rifiutato certe cose. Anche nei momenti di fame nera: l’ho fatto per mammà, per lei che deve tirare avanti senza papà. Mamma diceva: ‘Ho sognato papà, aveva ali grandi. Dice di stare tranquilli: diventi calciatore'”
“Dicevano che un giorno sarei diventato calciatore. A me è capitato di avere a che fare con certe situazioni, ma ho sempre rifiutato per due motivi: per mia madre e per il calcio. L’onestà è la prima cosa”.
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