Mentre seguivamo la
performance di Ettore Favini sulle pendici del terril, una montagna di detriti
alle spalle della miniera, sapevamo di avercela fatta. Il signor Costa ci aveva
prestato tutti i televisori, il circolo sardo ospitava gli artisti, e i lavori
erano tutti installati. Il risultato del nostro progetto per Manifesta9, per il
quale abbiamo invitato un gruppo internazionale di artisti ad esporre in un ex
quartiere minerario belga, è stato il premio che speravamo. Con un budget totale
di 7500 euro, e la collaborazione, molto più preziosa, della gente del posto e
degli artisti, il primo settembre abbiamo visto materializzarsi i lavori di
AuroraMeccanica, Fatma Bucak, Ettore Favini, Meryll Hardt, Marguerite Kahrl,
Carole Louis, Vittorio Mortarotti, Geraldine Py e Roberto Verde, Karim Rafi,
Younes Rahmoun e ZimmerFrei.
L'idea ci è venuta su una pietra in mezzo a un
fiume nel cuneese, la scorsa estate. Michela Sacchetto ed io parlavamo di quanto
ci sarebbe piaciuto invitare degli artisti a lavorare intorno a un mercato
tradizionale, in un luogo dove insieme alle merci si scambiano tradizioni e
contatti tra persone. Michela viveva già a Bruxelles, io ero reduce da un
periodo di lavoro ad Anversa, e guardando al Belgio ci è venuto in mente il
mercato di Vennestraat, la strada principale di un ex quartiere minerario di
Genk, una cittadina nel cuore del limburgo Belga, dove vivono migliaia di
immigrati italiani, turchi e marocchini. Genk, abbiamo realizzato in quel
momento, avrebbe tra l'altro ospitato la nona edizione della biennale
Manifesta.
L'atmosfera di Vennestraat ci
aveva incuriosite. È la strada che porta alla minera di Winterslag, conosciuta
come C-Mine, che dal 2010 ospita uno dei centri culturali più grandi e attivi
del Limburgo. Da quando, nei primi anni Novanta, sono state chiuse tutte le
miniere della regione, alcune sono state rinnovate e riconvertite in musei,
centri commerciali o culturali. Continuano così ad essere il centro della vita
dei quartieri circostanti, aree operaie, costruite secondo il modello delle
città giardino, abitate da ex minatori e loro discendenti. Lungo Vennestraat,
vicino alle "frituur" (friggitorie) belghe, si trovano i "bar sport" dell'Italia
degli anni Sessanta, le atmosfere, vietate alle donne, dei vecchi caffè turchi,
e i sapori del Marocco.
Michela ed io abbiamo scritto il progetto, e pensato
ai primi artisti che avremmo voluto invitare. A dicembre ho poi incontrato
Cuauhtemoc Medina, il curatore di Manifesta. Gli ho parlato dell'idea e l'ha
incoraggiata. La biennale si sarebbe svolta interamente dentro le mura di una
miniera abbandonata, la miniera di Waterschei, e gli piaceva che il progetto
entrasse anche nella dimensione sociale, di vita quotidiana, della città. Mi ha
spiegato che avremmo dovuto mandare una proposta alla commissione per i
"parallel events", e che la clausula era di stabilire una partership con un ente
locale. Abbiamo così trovato una galleria di fotografia e design di Vennestraat,
Galleriet, interessata a collaborare con noi.
Al momento di presentare la
domanda, l'idea si era già estesa oltre ai confini del mercato. Volevamo
tracciare una mappa di luoghi comuni, nascosti e inaspettati, lungo Vennestraat
dove allestire i lavori degli artisti, coinvolgendo attivamente gli abitanti del
quartiere: siamo entrate nell'affollata panetteria turca, abbiamo bussato alle
porte di un cinema dismesso dell'epoca mineraria e ci siamo sedute al bancone
del circolo sardo. Avevamo steso una lista di artisti che avessero già lavorato
sul tema dell'identità di un luogo, sia dal punto di vista umano che
territoriale, che avessero indagato l'idea di appartenenza, di "casa" e di
spostamento, che avessero approfondito il ruolo giocato dalla memoria, sia
personale che collettiva. Ma soprattutto di artisti che ci piacevano molto. Gran
parte di loro sono originari, non a caso, degli stessi Paesi delle grandi
comunità che popolano Genk: Belgio, Italia, Turchia e Marocco. Non intendevamo
creare un'equazione scontata, ma ci sembrava che potesse essere stimolante, sia
per gli artisti che per i locali, confrontarsi con persone con cui si
condivideva l'origine ma non il destino.
Di soldi per i progetti paralleli,
dalle casse di Manifesta, non ce n'erano. Nell'arco di pochi mesi (la risposta
alla nostra domanda è arrivata a fine febbraio) abbiamo dovuto fare fundraising,
trovare sponsor, studiare con gli artisti progetti low budget, capire come
ospitarli a Genk, e trovare le location adatte. I fondi sono arrivati dalla
città di Genk, dal Kostfach di Stoccolma (dove Michela sta facendo una residenza
per curatori) e da alcuni sponsor, come la galleria Alberto Peola di Torino, che
ha sostenuto la partecipazione di Fatma Bucak, e il GAI, che ha coperto le spese
di AuroraMeccanica.
Quando Michela ed io ci trovavamo a
Genk dormivamo ospiti da Don Claudio, un prete operaio che ha studiato a Torino
con Gianni Vattimo. Le associazioni locali si sono rese subito disponibili ad
aiutarci a livello pratico e gli abitanti e commercianti di Vennestraat hanno
accolto con entusiasmo il progetto. I materiali per le opere ci sono stati in
gran parte prestati. Il signor Costa, padrone del cinema dismesso di Winterslag,
è stato fondamentale per le video installazioni. È di origini cretesi (dice
sempre, ridendo, di essere un "cretino"), e possiede centinaia di vecchi
televisori, che ripara per combattere il vizio contemporaneo di comprare cose
nuove invece che aggiustarle. Gli artisti, arrivati a Genk nei giorni precedenti
all'inaugurazione della mostra, hanno lavorato con quello che c'era a
disposizione, con flessibilità, sensibilità e un creativo spirito di
adattamento. Per la realizzazione materiale dei lavori siamo stati aiutati da
alcuni amici arrivati per l'occasione dall'Italia, come Stefano Riba, un giovane
gallerista di Torino. La collaborazione che si è creata tra tutti è stata molto
costruttiva, e i lavori, sia gli interventi temporanei sul mercato che le
installazioni nelle sedi di Vennestraat hanno coinvolto la gente del luogo e
lasciato un segno. In questo scambio, nell'incontro tra il lavoro di un gruppo
di artisti internazionali e il tessuto sociale di una sperduta cittadina ex
mineraria, si trova il cuore del nostro progetto. Gli ex operai e le loro
famiglie, sospesi in un limbo post industriale, devono affrontare la
trasformazione, economica e sociale, della regione in cui vivono. E l'arte, in
questo caso, ha assunto la responsabilità del suo ruolo nella
società.